Un esercizio di sguardo tra le memorie: percorsi didattici ai monumenti della Grande Guerra
Il presente intervento nasce dalla rielaborazione di quanto riportato alla conferenza internazionale Guerra e pace: istanze educative, secondo appuntamento dell’AIRDHSS, l’Associazione internazionale di ricerca per la didattica della storia e delle scienze sociali, svoltasi a Friburgo nel settembre del 2014. I tre giorni di discussioni sono stati ricchi di riflessioni in materia di insegnamento della storia e della sua connessione con il presente, del rapporto tra storia e memorie, di quanto possano esistere un insegnamento e una didattica “della pace”.
L’insegnamento della storia appare più “determinato che determinante”[1], continuamente minacciato dalle questioni politiche del contemporaneo, e dalle memorie che “nella storia si nascondono e dalla storia traggono legittimità”[2].
Pur nella ferma convinzione che l’approccio storico possa essere antidoto alle istanze nazionaliste e, in chi la insegna, che tale disciplina abbia un risvolto tangibile e verificabile in tempi brevi nella costruzione di una coscienza democratica, tuttavia tentando una misurazione con strumenti scientifici (quelli della statistica) di tale effettivo cambiamento all’interno di un campione quale può essere una classe di alunni, esso appare non significativo, risibile.
La storia e il suo insegnamento appaiono intimamente connessi al contemporaneo e alla sua costruzione, e questo risulta ancor più evidente nel caso di un passato traumatico, come può essere quello di un genocidio drammaticamente recente (Rwuanda, BENTROVATO[3]), in situazioni di un presente di conflittualità (Israele, NAVEH[4])o nei paesi in cui la memoria da affrontare sia quella delle guerre civili. A questo proposito valgono casi in cui il passato e il presente della crisi economica si con- fondono, e in cui un lavoro scientifico di restituzione di memorie dimenticate, o di quanto dimenticato dalle memorie ufficiale, si rivela urgente, anche per contrastare un insorgente revisionismo (Grecia, SAKKA[5]) su cui vivono movimenti violenti.
In questo, una riflessione importante è quella del pericolo dell’avvicinare la storia schiacciandola al presente, confondendola con le memorie, obbligando a viverla come una questione propria, da sentire con i propri cinque sensi. Eppure, è solo nel distacco che la storia la si comprende davvero, nel suo essere “scienza degli uomini nel tempo” (BLOCH[6]), quel distacco che permette di affrontare anche la “guerra tra le memorie” (JOUTARD).
Tale riflessione vale per tutti i luoghi di memoria di eventi e periodi traumatici (i memoriali della Shoah e il museo della Stasi a Berlino), quanto per l’attuale temperie che coinvolge parte dell’Europa, quella del centenario della Grande Guerra. Così nelle Fiandre (VAN NIEUWENHUYSE[7]), ma lo si percepisce anche nel Nordest italiano, quanto la questione centenario, oltre che innescare procedimenti retorici piuttosto vetusti (la retorica dell’eroe e del sacrificio), sia anche una questione economica. Molti si stanno attivando, spesso in maniera encomiabile, per rispolverare un evento tanto fondativo quanto dimenticato, ma ci si sta anche arricchendo, con il rischio, soprattutto per gli studenti, di una ridondanza che appare simile all’oblio. La cautela che alla ricerca in ambito storico va data, ricordando che essa non può prescindere anche dalle memorie di chi la fa, l’attenzione che chi la insegna ha dimostrato nei giorni della conferenza di possedere, sono segnali incoraggianti di una questione complessa, ma viva e presente.
Che non è meramente una questione di didattica, ma di etica (JOUTARD).
Contestualizzazione del luogo e della sua significatività: la Battaglia del Solstizio.
Il Montello è un luogo particolare: si tratta di un rilievo montuoso, a nord di Venezia, situato a ovest del Piave, nel territorio della provincia di Treviso. È un luogo paesaggistico di valore, apprezzato dagli abitanti che lo hanno deputato a destinazione del tempo libero, delle passeggiate domenicali. Quasi un centinaio di anni fa, lungo la linea del Piave, quindi alle dirette pendici del Montello stesso, si attestava il fronte italiano. Dopo la rotta di Caporetto, nell’ottobre del ’17, la ritirata delle truppe italiane e l’offensiva austroungarica si fermano lungo il fiume, spostandosi dall’Isonzo al Piave. Qui, lungo le doline del Montello, che è un territorio carsico, l’esercito si riorganizza, complice il cambiamento ai vertici, in cui a Cadorna si sostituisce il generale Diaz. Nell’estate del 1918 è qui che l’esercito austroungarico tenta l’offensiva che dovrebbe essere definitiva, e proprio nelle immediate vicinanze e sul Montello, nei giorni che vanno dal 15 al 23 giugno, si combatte quella che è conosciuta come Battaglia del Solstizio, uno dei tre grandi scontri lungo la linea del fronte costituito dal corso del Piave. L’attacco iniziale è quello dell’esercito imperiale, che attraversa il fiume, rompendo le prime linee. Seguono giorni di duri scontri nella zona, in cui l’esercito italiano, in particolare l’ottava armata, al comando del generale Pennella, tenta di fermare l’attacco. Sono giorni di combattimenti molto duri per entrambi gli eserciti, in termini di morti, di perdite materiali, di distruzione dell’abitato circostante. A battaglia finita, i paesi di Nervesa e Giavera sono completamente distrutti. Le testimonianze fotografiche rendono in questo senso l’idea, presentando cumuli di macerie e cadaveri lungo le strade.
All’insuccesso dell’offensiva seguono mesi molto duri per l’esercito imperiale, i cui membri sono duramente provati dalla fame, dai lunghi mesi di lotta e da un senso crescente di insofferenza. L’esercito italiano invece gode di maggiori risorse e delle migliorie organizzative volute da Diaz (INSENGHI, ROCHAT), e nei mesi successivi viene preparata quella che sarà l’offensiva finale, che porterà allo scontro conosciuto come battaglia di Vittorio Veneto (a passare il fiume è questa volta l’esercito italiano, insieme agli alleati britannici e francesi), a seguito del quale viene stipulato l’accordo di pace, siglato a Villa Berti, a Padova, nel novembre 1918.
Il Montello è quindi geograficamente al centro di una delle vicende determinanti dell’ultima fase del conflitto mondiale e, malgrado la sua attuale vocazione a spazio del tempo libero e delle famiglie, numerosi elementi ne testimoniano il passato bellico.
Oltre alla monumentalizzazione, anche la toponomastica è figlia di questo periodo: tutte le strade che attraversano il piccolo rilievo, e più in generale le vie di collegamento tra il Montello, il Piave e i paesi circostanti, (fino a Montebelluna, la sede del museo), hanno nomi che fanno riferimento all’episodio della battaglia, al primo conflitto mondiale in generale e al significato che si è poi nel tempo attribuito a questa fase della storia d’Italia. Significativo è, a questo proposito, che alle prese (così si chiamano le vie che tagliano il rilievo, la cui forma è quella di un’ellisse), sia stato dato il nome delle medaglie d’oro e delle alte cariche militari dell’esercito impegnato in questo luogo, a partire dalla prima, intitolata a Francesco Baracca, eroe dell’aviazione italiana, abbattuto proprio durante la battaglia, il 19 giugno 1918, sulla cui figura eroica verrà costruita un’imponente mitologia.
La monumentalizzazione: memorie stratificate.
La monumentalizzazione è, nel punto di vista qui considerato, il modo in cui uno spazio naturale diviene depositario di memorie istituzionali. È questo l’oggetto del percorso pensato e realizzato dal museo di Montebelluna, destinato principalmente a ragazzi di terza media (13- 14 anni) o quinta superiore (18- 19 anni), ma anche recentemente realizzato con ragazzini del quinto anno della primaria, che si sono dimostrati particolarmente ricettivi agli stimoli dei luoghi e ad una riflessione sulla cultura della morte.
Il Montello è al centro di una monumentalizzazione stratificata, a partire dall’immediato dopoguerra: vengono costruiti luoghi della memoria differenti, che rispondono alla visione e alle esigenze del periodo e di una determinata cultura.
Una consistente parte di tali monumenti è legata ai caduti: i morti vengono già chiamati così con termine tecnico, ma anche molto più “indolore”. Essi vengono inizialmente sepolti nei cimiteri circostanti, poi spostati in un luogo deputato, che dica qualcosa rispetto al significato che si attribuisce al loro essere stati, in quel momento, principalmente dei soldati. Si tratta, in un’area relativamente poco estesa, di un confronto tra culture e epoche differenti. Nel comune di Giavera si trova infatti uno dei numerosi cimiteri britannici della zona, più a nord (ma non fanno parte del percorso scelto per limiti di tempo e logistici), vi sono un sacrario francese, nel comune di Pederobba, e uno austroungarico, a Quero.
Le fasi della monumentalizzazione dell’area sono tre: la prima cronologicamente è quella del cimitero britannico, sistemato accanto a quello del comune di Giavera del Montello, non lontano dai resti dell’abbazia di Sant’Eustachio, dove il comando britannico aveva sede. Si tratta di un cimitero su modello dei cimiteri- giardino americani (MOSSE), che possiede tutti gli elementi dei cimiteri militari gestiti dal Commonwealth. La commissione apposita, denominata War Graves Commission, viene istituita nel 1917, mentre il cimitero di Giavera ha l’aspetto attuale già nel 1919. Vi si trovano tutti gli elementi della cultura memorialistica militare britannica: all’importanza della natura si affiancano gli elementi ricorrenti, la Sacrifice Cross, la croce con la spada che immediatamente restituisce il collegamento con il tipo di sepoltura, e la Rememberance stone che riporta la frase di Kipling “their name liveth for evermore”.
Di circa vent’anni successivo, inaugurato nel ’38 ma già terminato nel ’35, è il sacrario dei caduti italiani, nel vicino comune di Nervesa della Battaglia, significativamente situato su un piccolo colle adiacente al corso del fiume Piave. La struttura che accoglie le 9.325 salme italiane, di cui 6.099 riconosciute, è progettata (dall’architetto Felice Nori) ed inaugurata in epoca fascista, a venti anni di distanza dalla battaglia che conclude il conflitto[8]. La retorica intorno alla vittoria è uno degli elementi forti della politica culturale fascista (ISNENGHI), ed è già espressa architettonicamente. Si tratta di una struttura monumentale imponente, nello stile delle toten bürgen, le fortezze dei morti (MOSSE), che fonde insieme elementi dell’architettura classica e l’idea medievale della torre, della fortezza. L’ossario è uno dei sacrari militari distribuiti nel nord-est della penisola, in particolare lungo i fronti. Sono luoghi che, a partire dal più popolato, quello di Redipuglia, sono stati caricati di significati per il periodo in cui vengono costruiti, e per l’istanza a cui rispondono: l’inglobamento del privato, in questo caso del dolore privato, nella sfera del pubblico, appropriazione che era stata sancita per legge nel 1931, in cui si decretava la cura e la proprietà dei caduti da parte dello Stato (BREGANTIN[9]).
Ad una fase differente della memoria istituzionale[10] (PASSERINI) appartiene quanto inaugurato negli anni Sessanta: si tratta di una chiesetta situata accanto a una dolina chiamata “la valle dei morti”, (anch’essa dichiarata monumento, dovendo il proprio nome al sangue dei numerosi cadaveri, che gli sfollati avrebbero trovato, una volta rientrati nei villaggi). La costruzione della chiesetta è del 1968, a cinquant’anni dalla fine del conflitto, e trasmette un’altra idea di memoria: vi è conservato all’interno della facciata un tronco d’albero, crivellato dai colpi durante i giorni della battaglia. L’albero appartenente ad un intero boschetto di castagni uccisi dai colpi dello scontro tra le artiglierie nemiche. Significativo è che vicino alla chiesetta trovi posto un cippo in memoria del generale Pennella, che nei giorni della battaglia del Solstizio guidava l’Ottava armata. Accusato di non aver saputo gestire con efficacia le ore dopo l’attacco, venne sostituito dal generale Enrico Caviglia, e condannato alla damnatio memoriae dal fascismo, tanto che in un altro dei monumenti presenti nel territorio, la colonna romana, il suo nome non compare tra quella delle altre gerarchie dell’esercito. A cinquant’anni dalla fine della guerra è di un’associazione di reduci, suoi soldati, l’idea di ricordarlo.
Un’ultima e recentissima fase della monumentalizzazione è quella attuale; con l’avvicinarsi del centenario dei fatti citati numerosi sono gli “istituti” che stanno promuovendo nuove forme di memoria: associazioni, scuole, comitati di cittadini. Tra le numerose iniziative in atto ve ne è una mossa dalla volontà di recuperare la memoria dei dispersi: ai ragazzi delle scuole di Giavera del Montello sono state fatte realizzare delle foglie di ceramica colorate, ciascuna delle quali riporta il nome di un disperso, appese ora ai muri della chiesetta.
Il percorso prevede inoltre la visita ad altri due luoghi, entrambi significativi dal punto di vista dell’osservazione critica di memorie differenti. Il primo è il Sacello Baracca, un tempietto costruito nel luogo in cui cadde l’aereo di Francesco Baracca, gloria dell’aviazione italiana. Si tratta di un tempietto che celebra le virtù dell’eroe, il culto dell’Uno che spicca in mezzo ai molti soldati senza nome. Anche della sua storia, e più in generale del culto dell’eroe, il fascismo fece un uso preciso.
Da ultimo il percorso si conclude con una visita alla Colonna Romana, un monumento di epoca fascista costituito da un reale lacerto di colonna romana, al di sotto del quale è scolpito il volto di un soldato (le cui fattezze ricordano molto quelle di Mussolini), e su cui sono incisi i nomi di alcuni dei comandanti (escluso Pennella, che in questo periodo viene cancellato dalla memoria ufficiale). Accanto alla colonna, inaugurata nel ’32 nel decennale della marcia su Roma, vi è l’Osservatorio del Re, una casa colonica utilizzata come osservatorio sul campo di battaglia, in cui anche il re Vittorio Emanuele III venne condotto ad osservare le manovre dell’esercito. In particolare l’osservatorio costituisce un buon punto di vista per ragionare sulle dinamiche militari, e per dare un’idea concreta di quali potessero essere gli strumenti e lo svolgersi di una battaglia. Tuttavia, si tratta principalmente di un percorso nella memoria istituzionale, ovvero nel modo in cui dall’alto la memoria di un evento venga determinata e portata avanti, per rendere chiara ai ragazzi la sua mobilità.
L’intento didattico: offrire strumenti per uno sguardo critico.
Il percorso vuole essere principalmente un esercizio di sguardo; il primo intento è l’accorgersi che un territorio che spesso già si conosce (i ragazzi provengono da scuole della provincia di Treviso o delle vicine provincie di Padova, Vicenza e Venezia), è un luogo particolare. Si nota, prima di tutto, quanto siano numerosi i monumenti – con un riferimento a cercarli anche nel proprio comune, nei luoghi d’appartenenza.
La riflessione proposta parte spesso proprio da questo: il rendere evidente cosa sia un monumento, quali siano le specificità di un luogo atto alla memoria. Il percorso proposto parte perciò sempre dal cimitero britannico, e dall’evidenza di un confine. Varcando i cancelli, si fa notare il passaggio a uno spazio differente (in questo caso, ci si trova ufficialmente in territorio Britannico, il che sorprende i ragazzi quando si fa loro notare che dovrebbero parlare in inglese).
Il percorso prosegue poi cercando di far notare le tracce nel paesaggio, attribuendo significatività a ruderi (l’abbazia di Sant’Eustachio), e proponendo un confronto, oltre che cronologico, tra differenti culture della memoria. La visita al sacrario di Nervesa della Battaglia è, in questo senso, una riflessione su un modo molto diverso di celebrare i caduti. Si tratta di un confronto tra la cultura anglosassone, che mutua da quella americana l’idea del cimitero giardino, e quella italiana che sposa l’idea della Totenburgen, la fortezza dei morti (MOSSE), con un edificio massiccio e imponente, in cui si rende evidente l’idea della tomba di massa, dell’individuo come parte di una nazione in lotta, (o di una nazione che va così consolidando la propria memoria unitaria) che è il vero oggetto della celebrazione.
I ragazzi, anche qualora non sapessero nulla del primo conflitto mondiale (che in genere hanno da non molto affrontato in classe) sono condotti a interpretare i simboli che legano il luogo al passato militare, a ravvisare analogie e differenze con quanto appena visto al cimitero britannico. L’edificio viene collegato all’epoca in cui è stato fatto, agli intenti e ai riferimenti che esprime già a livello architettonico. Segue una visita al suo interno, con l’analisi della struttura interna, delle informazioni presenti sulle lapidi, ed una visita al museo che si trova all’ultimo piano, in cui sono conservati reperti bellici ritrovati nelle aree circostanti (questo permette di fare riferimento alla vita in trincea e ad alcune specificità della guerra di posizione), mentre dei pannelli illustrano le fasi delle battaglie combattute lungo il fiume, con una particolare attenzione a quella del Solstizio. Accanto agli eventi di storia militare, ai ragazzi viene richiesto uno sforzo di attenzione nei confronti del luogo, affinché possano percepire la vicinanza fisica con quanto raccontato[11]. A questo proposito si evidenziano alcune fotografie esemplificative, che rendono in particolare l’idea di come fosse l’abitato circostante dopo gli scontri. Il percorso costituisce pertanto sia un ampliamento della didattica scolastica, con l’approfondimento di uno specifico episodio all’interno del conflitto, ma altresì propone una riflessione più specifica sulla cultura della sepoltura dei caduti, con riferimento all’esaltazione dell’eroe (con le Medaglie d’oro e il sacello Baracca), alla preservazione o meno dell’individualità, alla celebrazione della nazione. Si tratta di una riflessione che illumina uno specifico episodio storico, ma si pone come chiave di lettura di quanto i ragazzi stanno studiando o studieranno in classe, e come uno strumento da utilizzare nella vita di tutti i giorni, nel fare esercizio di sguardo. Scrive la poetessa Cristina Campo, cui il concetto di attenzione fu particolarmente caro, che “dall’immagine l’attenzione libera l’idea, poi di nuovo raccoglie l’idea dentro l’immagine”[12].
In altre parole, attraverso un attento guardare gli strumenti della ricerca storica e sociologica vengono dati ai ragazzi nella convinzione che essi possano essere intelligibili ad ogni età, se adeguatamente contestualizzati. Il museo, cioè, integra il percorso didattico della scuola, offrendo quegli strumenti che il docente non ha il tempo di approfondire. In questo senso, pur non possedendo all’interno delle collezioni reperti che appartengano al Novecento e a questo ambito, il museo si pone come museo del territorio, al centro di una rete di luoghi significativi e significanti. L’intento è proprio quello di una riappropriazione del luogo abitato da un punto di vista differente: si tratta del raccordo di pezzi di storia, della propria storia in quanto essa insiste in un luogo e in un paesaggio, affinché si inserisca in un discorso più ampio, che collega le vicende del conflitto mondiale al più recente passato industriale, che porti con sé l’idea di continuità e differenze nei vari momenti storici, nonché dell’importanza di un’area che spesse volte si è trovata al “centro del mondo”.
Al di là della recente stagnazione economica, Montebelluna (e le medesime aree del Montello) sono state per un trentennio anche il luogo della produzione di una consistente porzione del mercato mondiale nell’ambito della calzatura sportiva, diventando un distretto industriale tra i più importanti d’Europa. Alcuni dei più importanti marchi di questo specifico settore (Nordica, Tecnica, Dolomite, San Marco, Lotto, Diadora), sono nati qui e l’intero territorio, a partire dagli anni sessanta era stato coinvolto in un’imponente, sebbene su piccola scala, rivoluzione industriale, le cui radici affondavano in una particolare vocazione artigianale dell’area.
Il museo ha recentemente promosso, assieme ad altri enti, un’indagine condotta attraverso gli strumenti della storia orale, quindi con interviste alle persone che a vario titolo facevano parte di tale distretto, che ha portato ad una prima riflessione pubblica, intitolata proprio “C’era una volta la città del lavoro”[13].
Possono apparire momenti lontani, quelli del primo conflitto mondiale e il recentissimo passato industriale, ma proprio mettere a fuoco lo sguardo, senza diminuire la lontananza, raccordare i pezzi per fare della storia un insieme coerente, è uno dei compiti che il museo si propone. Lo fa anche nell’ottica di un dialogo e un rapporto tra generazioni differenti (quelle delle famiglie e dei ragazzi, ad esempio), dei cui diversi punti di vista il museo vuole essere cassa di risonanza e filo conduttore[14].
Un museo per il territorio?
Il rapporto con la scuola, nell’ottica di una relazione continua e di una valutazione di quanto resti o come venga rielaborato il percorso, al momento manca. Tuttavia, è negli obiettivi futuri, malgrado le difficoltà per le differenti tempistiche, stabilire un rapporto continuativo con le classi che scelgono di fare questo percorso. È un’esigenza percepita come fondante, quella di mantenere un dialogo con i ragazzi che hanno seguito un percorso. Per il momento, chiedendo agli insegnanti che li avevano accompagnati quali fossero le loro impressioni, il problema principale appare la difficoltà di raccordo tra attività curricolari, l’andamento delle spiegazioni, ed extra curricolari, quale può essere un’uscita. Alla discrasia di tempo (la spiegazione del primo conflitto mondiale viene svolta in genere nei primissimi mesi dell’anno) si aggiunge il fatto che la maggior parte delle uscite, complice il fattore climatico, si svolgono da marzo in poi, inseguendo i numerosi argomenti da affrontare, in vista della conclusione dell’anno.
Ciò non permette una riflessione ampia su quanto visto, e se esso possa o meno avere influito sulla percezione storica dei ragazzi.
Vi è un’ulteriore questione, che si somma alle molte difficoltà dell’affrontare un argomento spesso oggetto di retorica.
Il Nordest italiano, il Veneto in particolare, ha conosciuto un’industrializzazione recente e piuttosto rapida, che ha avuto molte conseguenze (dalla più evidente, lo stravolgimento del paesaggio attraverso quello che viene definito il modello di città diffusa). Tra queste, con un conseguente notevole incremento della popolazione di origine straniera, che qui incontrava notevoli possibilità lavorative. È per questo che, specie dagli anni Duemila in poi, molte delle classi di scuola primaria hanno una composizione mista, con bambini di seconda generazione, figli di stranieri stabilitisi definitivamente in Veneto. Alcuni dei ragazzi che partecipano ai percorsi, a volte quasi la metà della classe, ha provenienze familiari differenti: anche il loro sguardo lo è. Le stesse vicende belliche sono forse state raccontate in famiglia, possono far parte del patrimonio familiare delle memorie dal punto di vista di un altro fronte, ed è soprattutto la loro sensibilità che rivela le fragilità di un discorso ancora a volte legato al punto di vista nazionale. Essi rappresentano un campanello d’allarme ad ogni retorica o settorialismo. Il museo, che fa dell’intercultura una delle proprie istanze, si propone di riflettere in quest’ottica, anche per quanto riguarda le celebrazioni di un centenario che coinvolge un territorio tanto cambiato.
Tale riflessione si inserisce in realtà in un percorso già iniziato, che si esprime in particolare in un laboratorio intitolato Un viaggio nel tempo in cui eravamo migranti. La storia dell’emigrazione italiana nel mondo[15], che ha fatto parte di un progetto dal titolo “Le scarpe degli altri”, che coniugava l’analisi storica dell’emigrazione italiana nelle sue due grandi fasi, quella di fine Ottocento e quella del secondo dopoguerra, con l’analisi di canzoni e documenti autobiografici (avvalendosi della preziosa voce e presenza scenica della fisarmonicista Francesca Gallo). Il progetto combinava l’analisi storica del passato con un’analisi sociologica del presente: Attraverso l’utilizzo di un simbolo semplice e immediato, quello della scarpa (altresì legato a un territorio che ha vocazione calzaturiera) persone stabilitesi qui per lavoro e ragazzi di origine straniera di alcune classi del territorio erano invitati a raccontare le proprie storie di migrazione, dando voce a un punto di vista spesso silenzioso.
Anche l’attenzione alla categoria degli egodocuments, quale fonte per lo studio e la didattica della storia, è uno dei percorsi intrapresi al museo. Nella convinzione che la prospettiva ibrida, narrativa oltre che storica, del documento personale, nel suo avvicinarsi alla quotidianità della vita, pur non perdendo la validità scientifica dell’analisi distaccata, a posteriori, possa essere un valido motore di interesse nei ragazzi, è stato realizzato il laboratorio “Testimoni di fatti straordinari. La guerra e la scrittura della propria vita”: attraverso l’analisi critica di documenti differenti, pagine di scrittura diaristica inerenti sia al primo che al secondo conflitto mondiale, si propone una riflessione sulla produzione di un documento e su quali siano i suoi intenti, sull’utilizzo di esso come fonte storica, inserita in un quadro di informazioni che in genere sono quelle date dalla scuola, intorno ai fatti e agli accadimenti, e sull’essere essi stessi, i ragazzi, produttori spesso inconsapevoli di una grande quantità di egodocumenti; l’utilizzo dei blog, dei social media, la dimensione del privato e quella del pubblico che si confondono in un rapporto preciso, su cui riflettere.
In questo senso, attraverso l’uso di fonti differenti, nella progettazione di percorsi alla scoperta e ri-scoperta della storia recente, il museo si propone di essere un museo del territorio: custode della storia di ciascuno, oltre che di reperti, perché alla storia di ciascuno sa attribuire una collocazione temporale e spaziale, in cui un prima e un dopo tra di loro dialogano, e in cui anche i recenti cambiamenti, la perdita di un determinato status quo lavorativo, e del conseguente benessere economico, a cui ci si era abituati e a cui si faceva affidamento, possano apparire cambiamenti, non catastrofi.
Nella custodia e valorizzazione del passato, cioè, il museo si propone in realtà come costruttore di futuro: un futuro inclusivo, plurale, che sappia accogliere esperienze diverse e che ponga il suo territorio come parte di un insieme dialogante, un’unione, quella dell’Europa, che nella sua etimologia richiama ad un’ampiezza di sguardo, alla capacità di vedere oltre.
Scriveva Tina Merlin, giornalista italiana, che “ogni storia individuale non è sola ma in compagnia di tante altre che formano il passato di una comunità e in qualche modo ne determinano il futuro”[16].
Bibliografia
BREGANTIN, LISA, Caduti nell’oblio. I soldati di Pontelongo scomparsi nella Grande Guerra, Nuova Dimensione, Portogruaro (VE) 2003.
CAMPO, CRISTINA, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano, 1987.
ISNENGHI M., ROCHAT G., La Grande Guerra. 1914- 1918, La Nuova Italia, Firenze, 2000.
MARTINAT, MONICA, Tra storia e fiction. Il racconto della realtà nel mondo contemporaneo, Et al. Edizioni, Milano, 2013.
MERLIN, TINA, La casa sulla Marteniga, Cierre, Verona, 2001.
MOSSE, GEORGE L., Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Bari, 1990.
PASSERINI, LUISA, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, La nuova Italia, Firenze, 1988.
Note:
[1] L’espressione è di Mostafa- Hassani Idrissi (Università di Rabat), nella sessione plenaria finale che concludeva i lavori dell’ultima mattina del convegno, Friburgo, 13 settembre 2014.
[2] JOUTARD, PHILIPPE, Guerre Mondiali, storia e memorie a scuola, Friburgo, 11 settembre 2014.
[3] BENTROVATO, DENISE, Teaching the nation in the aftermath of a mass violence: the politics of memory and history education in Post- Genocide Rwuanda, 12 settembre 2014.
[4] NAVEH, EYAL, Public controversy over history education in Israel: the case of the War of Independence/ Nakba, 12 settembre 2014.
[5] SAKKA, VASSILIKI et. al., Understanding the civil war in Greece (1946- 1949): from transcending a taboo to a multiprismatic approach, in the light of communist Maria Karagiorgi’s life narrative, 11 settembre 2014.
[6] BLOCH, MARC, Apologia della storia, o Mestiere di storico [1998], Einaudi, Torino, 1998.
[7] VAN NIEUWENHUYSE, KARL, Historical thinking ‘versus’ moral education? The case of World War I, 11 settembre 2014.
[8] Furono numerosi i sacrari ufficialmente inaugurati, o visitati nel 1938. La temperie è particolare, si celebra ufficialmente la vittoria di vent’anni prima, ma di fatto la si usa in maniera strumentale per la guerra che si sta per affrontare, e per l’impero da poco istituito. Per quanto riguarda il sacrario di Nervesa, esso era già stato “terminato nel 1935, su progetto dell’architetto Felice Nori. La massiccia torre e la pienezza del basamento rispecchiano una volta di più lo stile marziale a cui si ispirava il regime. I caduti sono posti all’interno della costruzione, così come la cappella. Ancora una volta la morte è nascosta e preservata all’interno del monumento- culto, dell’immagine marziale di cui l’Italia si investe, investitura che sempre più si concretizza con l’inizio della guerra coloniale.”, BREGANTIN, L., Caduti nell’oblio. I soldati di Pontelongo scomparsi nella Grande Guerra, Nuova Dimensione, Portogruaro (VE) 2003, p. 138.
[9] Con il R.D. 24 agosto 1919 viene istituita presso il Ministero dell’Interno la Commissione Nazionale per le onoranze ai Militari d’Italia e dei Paesi Alleati morti in guerra, il cui compito era dare degna sepoltura e sistemazione alle salme. Vi si dice in particolare che i caduti sarebbero stati onorati «in perpetuo», e “con questa legge i caduti diventano patrimonio dello stato; lo sradicamento dalla famiglia iniziato con il servizio militare si completa con l’appropriazione materiale e spirituale del defunto. I soldati caduti sono patrimonio spirituale della nazione, tutto ciò che concerne la sfera del privato viene inglobato nel pubblico, compresa la manifestazione del dolore”. (BREGANTIN, p. 123) Esisteva anche un vincolo per le salme di quelli che erano stati dei nemici, poiché il trattato di Saint- Germaine en Laye, con valenza reciproca obbligava i paesi al rispetto e alla conservazione delle sepolture di guerra esistenti e a fornirne documentazione. (BREGANTIN, p. 124).
[10] La memoria è, nelle parole di Luisa Passerini “l’atto narrante di un individuo in un contesto sociale, nel tentativo di conferire significati condivisibili a certi eventi o aspetti del mondo ed eventualmente di metterne in secondo piano altri”. (PASSERINI, p. 108) In questo caso, poiché si tratta di memorie istituzionalizzate, esse sono l’espressione delle istanze e volontà, soprattutto politiche, di un particolare periodo.
[11] Ci avverte Martinat (MARTINAT, M., Tra storia e fiction. Il racconto della realtà nel mondo contemporaneo, Milano, Et. Al. Edizioni, 2013) del pericolo di rendere labili i confini tra storia e fiction, restituendo in maniera sensazionalistica gli eventi e schiacciandoli nella dimensione privata, senza dar loro un adeguato contesto, senza il quale perdono di significatività storica. In non si tratta di far “sentire” la guerra ai ragazzi, quanto di una riappropriazione che associ un contesto ampio a vicende singole, collocandole in un territorio che è quello familiare, quotidianamente vissuto.
[12] CAMPO, C., Attenzione e poesia, in Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 168.
[13] Il convegno, svoltosi presso la biblioteca di Montebelluna il 24 maggio 2014, si intitola C’era una volta la città del lavoro. Ricerche e testimonianze su un distretto industriale.
[14] Nell’intervento di apertura a Guerra e pace: istanze educative, lo ha ricordato proprio Philippe Joutard (la traduzione è mia), in riferimento alla storia, ma credo valga anche per un museo di storia, “la storia può provare a calmare le memorie ferite e permettere alle memorie rivali di vivere”, Philippe Joutard, Guerre mondiali, storia e memorie a scuola, Friburgo, 11 settembre 2014.
[15] Laboratorio ideato e poi realizzato presso il museo di Montebelluna da Erika Lorenzon, ricercatrice, e Francesca Gallo, fisarmonicista, cantante e ricercatrice. L’intero progetto è anche diventato un video, dal titolo Nelle scarpe degli altri.
[16] MERLIN, T., La casa sulla Marteniga, Cierre, Verona, 2001, p. 189.
Immagine di copertina: Italy Ancona Passetto – War Memorial (2012). Foto di Claudio.stanco – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=18360893