Un libro, una mostra e un viaggio: tre modi per affrontare (e rielaborare) Srebrenica
Muro dei nomi al memoriale del genocidio di Potočari, vicino Srebrenica.
Foto di Michael Büker – Own work, CC BY-SA 3.0, Link
Abstract
Nel corso delle guerre legate alla dissoluzione della Ex Jugoslavia (1991-1995), che hanno raggiunto picchi di inaudita violenza in Bosnia-Erzegovina, nella cittadina di Srebrenica, nel luglio 1995, è stato compiuto dalle truppe della Republika Srpska ai danni della popolazione bosniaco-musulmana ciò che il Tribunale Criminale della Ex Jugoslavia ha sentenziato come genocidio. Come raccontare questo recente genocidio nel cuore dell’Europa? Vengono qui forniti tre possibili approcci al tema, ovvero: attraverso la lettura di un agevole libro memorialistico; guardando (o ospitando a scuola) una mostra fotografica; compiendo un viaggio di scoperta e formazione a Srebrenica con il progetto Srebrenica City of Hope.
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During the wars related to the dissolution of the Former Yugoslavia (1991-1995), which reached peaks of unprecedented violence in Bosnia and Herzegovina, in the small town of Srebrenica, in July 1995, what the Criminal Tribunal of Former Yugoslavia ruled as genocide was carried out by Republika Srpska troops against the Bosnian-Muslim population. How to narrate this recent genocide in the heart of Europe? Three possible approaches to the topic are provided here, namely: through reading an easy memoir; viewing (or hosting at school) a photo exhibition; and taking a journey of discovery and education to Srebrenica with the Srebrenica City of Hope project.
La categoria di genocidio
Il termine «genocidio» non esisteva prima del 1944, tanto che in quell’anno Winston Churchill, riferendosi agli orrori del nazismo, affermava «We are in the presence of a crime without a name»[1].
In quello stesso anno, Raphael Lemkin, cercando di descrivere le politiche naziste di sterminio sistematico degli Ebrei europei, in una perizia sulla politica di occupazione tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale per la Carnegie Endowment for World Peace[2], non solo conia il neologismo[3] ma cerca di desumere dalle pratiche belliche naziste nell’Europa orientale delle categorie adeguate e funzionali per la conoscenza scientifica dell’«l’insieme di azioni progettate e coordinate per la distruzione degli aspetti essenziali della vita di determinati gruppi etnici, allo scopo di annientare i gruppi stessi[4]».
Sull’onda dell’impatto emotivo dell’olocausto e anche in gran parte grazie agli instancabili sforzi di Lemkin, nel 1948 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva la Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di genocidio[5].
Per capire la peculiarità del termine «genocidio», bisogna distinguere accuratamente fra violenza di massa – cioè massacro -; sterminio – cioè una serie di massacri con l’intento di sottomissione -; pulizia etnica[6] – cioè una serie di massacri finalizzati al dominio e all’espulsione -; e genocidio – cioè cancellazione totale di uno specifico gruppo umano -.
Lato sensu si parla di genocidio a proposito di quasi tutti i più sanguinosi conflitti della seconda metà del XX secolo[7], anche per scuotere le coscienze e invocare interventi politico-militari[8].
Jacques Semelin[9] distingue tra due tipologie di «genocidio»: quella in cui la violenza contro i civili è finalizzata a distruggere parzialmente una comunità per sottomettere completamente la parte restante e quella in cui è volta a estirpare completamente una comunità da un territorio o sradicarla per purificare il mondo intero dalla sua presenza infestante. Ciò introduce il tema del genocidio nelle ideologie di state building, originato dal desiderio di classificare, ostracizzare, purificare, rieducare, rimuovere attraverso l’espulsione o l’eliminazione l’«altro»[10].
La disgregazione della Ex Jugoslavia
I processi di state building sono alla base della disgregazione della Ex Jugoslavia e delle guerre che hanno insanguinato i Balcani, in particolare dal 1991 al 1995.
La Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia si componeva di sei distinte repubbliche (Bosnia-Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Slovenia e Serbia, che a sua volta includeva quelle autonome di Vojvodina e Kosovo) con numerose minoranze, diverse fedi religiose (cattolica, ortodossa, musulmana ebraica), due alfabeti (latino e cirillico) e due grandi retaggi storico-politico-culturali (la tradizione bizantino-ottomana e quella asburgica)[11].
La Repubblica si fondava sul mito della Resistenza all’invasore straniero durante la Seconda Guerra Mondiale, alimentata dalla speranza di costruire un modello di socialismo nuovo, capace di mediare tra est ed ovest e tenuta unita dalla figura carismatica del leader Tito.
Le cause della dissoluzione della Repubblica Federale vanno rintracciate in plurimi fattori: la morte di Tito, l’appannarsi della memoria storica, una profonda crisi economica e finanziaria e infine il venir meno delle contrapposizioni caratterizzanti la guerra fredda, uniti all’incapacità della vecchia dirigenza di procedere nelle riforme necessarie[12].
Agli esordi degli anni ’90, quindi, lo stato multinazionale si rivela incapace di soddisfare le aspirazioni delle comunità nazionali che lo costituiscono. L’affermarsi di una cultura politica nazionalista porta alla ribalta l’ideologia dello stato-nazione etnicamente e culturalmente puro, volta a semplificare la mappa etno-demografica[13] attraverso la costruzione del nemico, la legittimazione della guerra, il massiccio trasferimento di popolazioni, la pulizia etnica e l’eliminazione fisica.[14] Gli appartenenti ad altre etnie, considerati come cittadini di seconda categoria devono essere marginalizzati, cacciati o eliminati. La Croazia ai Croati, la Serbia ai Serbi e così via.
L’etnia maggioritaria serba non si mostra disposta a tollerare il processo di emancipazione altrui, iniziato nel ’91 con l’indipendenza della Slovenia nel luglio, e della Croazia nell’ottobre[15]. L’intento è quello di creare una Grande Serbia, che abbracci anche le «isole» etniche sparse in Bosnia Erzegovina e Croazia orientale, cioè i cosiddetti prečani (quelli al di là dei fiumi) da ricongiungere con la madrepatria. Queste terre diventano, per il governo di Belgrado, dei territori da conquistare e la presenza di altre etnie non disposte ad accettare il dominio serbo è affrontata come un problema da risolvere con violenze, massacri, trasferimenti.[16]
La guerra in Bosnia
La proclamazione, il 9 gennaio 1992, della Repubblica del popolo serbo di Bosnia-Erzegovina con capitale a Pale e il referendum indetto il 25 gennaio dal Parlamento bosniaco trasformano la guerra in un feroce conflitto etnico che, in quella ex Repubblica, ha tratti particolarmente efferati a causa della sua singolare miscela di etnie, religioni e culture diverse.[17]
Fino a quel momento, nella Repubblica di Bosnia-Erzegovina popolata da 4,4 milioni di persone, non si riscontrano ostilità fra i musulmani (circa il 44% della popolazione) e i serbo-ortodossi (circa 31% della popolazione), che abitano soprattutto sulle colline della parte orientale del paese, dedicandosi per lo più all’agricoltura e alla pastorizia.
In territorio bosniaco, i tre gruppi etnici (serbi, croati e musulmani) sono diffusi in modo più o meno omogeneo. Le forze politiche coincidono con le componenti etniche, mentre l’unico a difendere l’unità della Bosnia-Erzegovina è Izetbebegović, che continua a proclamarsi fautore di una Repubblica dei «cittadini» e non di «nazioni» in cui ognuno, al di là delle differenze religiose e culturali, possa godere degli stessi diritti.[18] Nel frattempo a Belgrado si elaborano mappe etniche e catastali per dimostrare che i Serbi sono sempre stati padroni di buona parte della Bosnia e che è giunto il momento di riprendersi la proprietà tolta: il primo passo è suddividere la gente in gruppi e assegnare a ciascuno di essi un nome: serbi, croati, musulmani.[19] Inoltre Milosević manipola la potente macchina da guerra della Repubblica Federale di Jugoslavia per farne un esercito personale per realizzare il sogno nazionalistico della Grande Serbia[20].
La proclamazione di indipendenza della Bosnia-Erzegovina è seguita dalla nascita della Republika Srpska[21], in collaborazione con l’esercito federale di Jugoslavia che nel giro di 18 mesi pone sotto controllo serbo il 70% del territorio, lasciando croati e musulmani, dapprima alleati, a disputarsi il restante 30%. La pulizia etnica è condotta dai Serbi, poi anche dalle altre forze in campo per uccidere i non combattenti con l’intenzione di distruggere parzialmente una comunità per sottomettere completamente ciò che ne resta.
Alla questione etnica si intreccia quella religiosa fra Serbo-bosniaci (ortodossi), Croato-bosniaci (cattolici) e Bosgnacchi, discendenti dei convertiti all’Islam nel periodo ottomano. I Serbi, per giustificare i loro crimini – come il massacro di oltre 500 civili a Bijeljina nel marzo ’92, a Bratunac il mese dopo e molti altri nei successivi tre anni e mezzo – sono soliti presentarsi come vittime dei «Turchi» sin dal Medioevo. La lotta contro di essi è ancora vivida nella memoria e nella mitologia serba e la propaganda nazionalistica legittima la guerra contro i Bosgnacchi proprio identificandoli come Turchi.
Nel contesto della «guerra ai civili» operata dai Serbi lo strumento del terrore è usato per scacciare in primis la popolazione di fede islamica ma anche quei connazionali che non si dimostrano abbastanza fedeli alla causa rifiutandosi di eliminare dalla Grande Serbia tutti i «Turchi». Nella pulizia etnica giocano un ruolo fondamentale i gruppi paramilitari, come le «Tigri», composte da fanatici nazionalisti, violenti di ogni risma, curve estreme degli stadi, persone uscite direttamente dalle carceri, a cui lo Stato ricorre lì dove capisce che non può farcela da solo[22].
In questo contesto, la «pulizia etnica» è realizzata trucidando persone, bruciando villaggi, distruggendo edifici religiosi (1400 chiese e moschee distrutte, il 45% dei luoghi di culto musulmani), e culturali (basti pensare alla Vijećnica (la Biblioteca Nazionale) incendiata dall’esercito della Republika Srpska la notte tra il 25 e il 26 agosto, o lo Stari Most, il celebre ponte vecchio di Mostar fatto saltare in aria, il 9 novembre 1993, dall’artiglieria delle forze croato-bosniache).
Anche lo stupro etnico – per la prima volta ritenuto crimine contro l’umanità dal Tribunale Internazionale Criminale per la Ex Jugoslavia (ICTY) -, ha un ruolo determinante, perché mira a distruggere il tessuto sociale e familiare in una realtà in cui la vittima si sente spesso «colpevole» e come tale è trattata[23].
Il tentativo dei Serbi di semplificare la mappa etnica, culturale e religiosa della Bosnia ha per lo più successo: a fine guerra (gli accordi di Dayton sono del novembre 1995) circa 64.000 civili bosgnacchi sono stati uccisi e il 95% di loro messi in fuga.
Srebrenica: il genocidio
Oltre alla pulizia etnica, uno strumento che l’ICTY ha condannato, per la prima volta dalla Convenzione, come genocidio è il massacro di Srebrenica.
Srebrenica si trova in una valle fra le montagne nella parte orientale della Bosnia, vicino al confine con la Serbia, tuttora all’interno della Republika Srpska.
Il Comune, prima della guerra, conta 37.000 abitanti, di cui 75% musulmani e 25% serbi. Benché i musulmani costituiscano la maggior parte degli abitanti, le formazioni serbe volontarie (insieme a mercenari) riescono a prendere il controllo della città già intorno alla metà di aprile ‘92. In questo periodo i Bosgnacchi non sono espulsi dalle loro case, ma sottoposti comunque a seri abusi.
L’enclave di Srebrenica, non riuscendo a unirsi con il territorio posto sotto il governo della Repubblica bosniaca più a ovest, si rivela vulnerabile agli attacchi dei Serbi, che a partire da marzo, avanzano rapidamente, bruciando e uccidendo. La città, circondata da Serbi e sovrappopolata per l’arrivo di profughi, rimane per mesi nel mirino dei franchi tiratori, sotto una pioggia di granate, a corto di acqua, carente di assistenza medica, di cibo e di sale e senza le più elementari condizioni igieniche[24].
Nonostante l’invio di aiuti umanitari da parte dell’UNHCR e oltre cento Risoluzioni dell’ONU – tra cui la 820[25] che impone il cessate il fuoco e dà mandato ai caschi blu di «impedire la conquista di Srebrenica da parte dei Serbi e procedere alla smilitarizzazione»- la città resta stretta nella morsa dei Serbi per circa tre anni[26], in un’escalation di violenza, fino a quando, il 6 luglio, è conquistata dalle truppe serbo bosniache, mentre i Caschi blu olandesi, consegnate le armi, si rifugiano nella base di Potočari, seguiti da circa 20-25.000 civili che sperano di trovarvi rifugio sotto la bandiera ONU; ma solo a 4-5000 di loro è permesso di entrare mentre il resto rimane a bivaccare nelle vicinanze[27].
La maggioranza degli uomini validi, con alcuni vecchi, donne e bambini, decide di tentare la fuga a piedi verso Tuzla, a 50 km di distanza attraverso i boschi. Dei circa 15.000 mossisi nella notte tra l’11 e il 12 luglio ne arrivano vivi fra i 4500 e i 6000[28]. Il 7 luglio, Mladić, comandante militare dei serbo-bosniaci, data assicurazione che donne, vecchi e bambini sarebbero stati evacuati da Potocari, fa identificare tutti gli uomini tra i 17 e i 60 anni, dopo di che – nei tre giorni successivi – li fa caricare su 40-50 veicoli, mentre il contingente olandese li consegna, timoroso o ignaro, comunque colpevole[29], ai carnefici. Per cinque giorni, gli uomini sono trucidati e poi sepolti in fosse comuni primarie e successivamente smembrati in secondarie per nascondere il genocidio[30]: 8372 sono le vittime identificate ma molti resti umani sono tuttora in corso di identificazione e molti ancora i dispersi[31].
Raccontare Srebrenica: Surviving Srebrenica
Un utile strumento didattico per spiegare agli alunni cosa è successo a Srebrenica fra il ’92 e il ‘95, anno del genocidio, è il libro di Hasan Hasanović, Surviving Srebrenica, edito da Gabrielli nel 2018. Si tratta del commovente racconto autobiografico del giovane Hasan, musulmano bosniaco, nato nel 1975 e sopravvissuto al genocidio nel quale ha perso il padre e il gemello, con i quali si era messo in marcia verso Tuzla, quando Srebrenica, dichiarata safe area dall’ONU, era caduta sotto il controllo della Armata serbo-bosniaca.
La storia, strutturata per un pubblico adolescente, porta il lettore nel cuore di una semplice famiglia contadina e della sua vita prima, durante e dopo la guerra. Si passa dunque da I bei tempi prima della guerra, in cui Hasan, il gemello e il fratello minore vivevano con i genitori e i nonni in un paese, al trasferimento a Srebrenica, a seguito delle prime violenze a danno dei Musulmani; dai primi bombardamenti alla caduta di Srebrenica e alla «marcia della morte»; dal raggiungimento del territorio libero di Nesuz alla difficile vita da profugo. La narrazione si conclude con l’emotivamente difficile ritorno a Srebrenica «fra terribili ricordi e gente sconosciuta» e l’assunzione, nel 2009, presso il Memoriale del genocidio, dove fa da guida ai gruppi di visitatori. L’ultima parte del racconto, significativamente intitolata Loro dicono che non è mai successo, affronta il tema del negazionismo serbo.
Il libro è estremamente utile per tentare di comprendere come si sia potuto di nuovo, dopo l’olocausto, perpetrare un genocidio sul suolo europeo e la dolorosa esperienza del protagonista aiuta a riflettere sulla precarietà della condizione umana quando viene investita dai pregiudizi ideologici.
È per altro interessante ricordare la genesi del libro in italiano, che è la conseguenza del viaggio del Liceo Copernico di Verona a Srebrenica, dove gli studenti hanno conosciuto Hasan. Colpiti dalla forza di questo giovane uomo e dal suo desiderio di testimoniare la terribile esperienza vissuta, hanno deciso di tradurre in italiano il racconto che Hasan ha fatto loro in inglese, per condividere con altri la loro conoscenza. Diffondere le parole di Hasan è stato per gli studenti un esercizio di cittadinanza consapevole e condivisa, un modo per trasformare la memoria in una riflessione sul presente. L’impegno di questi studenti dimostra come visite ai luoghi di memoria e incontri con i testimoni possano tradursi in un fruttuoso impegno didattico che prosegue anche dopo il ritorno in classe.
Mostrare Srebrenica: Around Srebrenica
La mostra Around Srebrenica è frutto del lavoro congiunto di Alessandro Coccolo, che si dedica da anni alla fotografia documentaristica e al reportage, realizzando dal 2005 mostre fotografiche sul tema del confine, e Simonetta Di Zanutto, giornalista professionista, viaggiatrice e blogger. Essa è frutto del reportage che ha portato i due nei Balcani fino ad arrivare a Srebrenica l’11 luglio 1995, per la commemorazione a 20 anni dal genocidio. Il titolo allude al tentativo di mostrare quello che c’è intorno a Srebrenica, sia dal punto di vista geografico che metaforico, snodandosi lungo un percorso che attraversa alcuni luoghi significativi della Bosnia Erzegovina, con un paio di tappe anche in Croazia, e culminando con la cerimonia al memoriale di Potocari che ricorda il genocidio.
La mostra, composta da 30 immagini in bianconero scattate in analogico da Coccolo, accompagnate da dieci pannelli con i testi di Di Zanutto, è una sorta di mappa inedita alla scoperta di quello che c’è intorno a Srebrenica. Le immagini e le parole del reportage si soffermano sulla cerimonia dell’11 luglio al memoriale di Potocari ma documentano anche le commemorazioni serbe di Petrovdan e raccontano la complessità della storia balcanica passando attraverso i villaggi di confine poco noti alle cronache ma dove si sono consumati alcuni tra i più violenti scontri etnici del conflitto. Immortala non solo i frammenti di ossa su cui lavorano degli antropologi del centro di identificazione delle persone scomparse di Tuzla ma anche gli «scheletri della memoria» nei villaggi di Bratunac e Zvornik nella Bosnia orientale, senza tralasciare le terre croate di confine, su cui si staglia il memoriale di Jasenovac, testimone della passata occupazione nazista dei Balcani, che è succeduta a quella italiana con l’appoggio del regime collaborazionista degli Ustaša.
La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Olmis nel 2016, che amplia i materiali presentati nell’esposizione. Alle 30 immagini, si affiancano ulteriori 37 fotografie e nuovi testi per formare un reportage più approfondito e completo che prova a delineare un percorso nella complessa e aggrovigliata narrazione degli eventi che caratterizza le terre della Ex Jugoslavia. Il catalogo contiene anche due mappe geografiche che aiutano ad individuare i luoghi delle fotografie e del viaggio, oltre a una ricca bibliografia e filmografia sui Balcani. «Il messaggio parte da Srebrenica e va contro la semplificazione e la banalizzazione -si legge nel catalogo-. La storia è sempre complessa e viaggiare nei Balcani significa accettare anche che le domande in sospeso saranno sempre più numerose rispetto alle risposte che si riusciranno ad ottenere. Questo è soltanto uno dei motivi per desiderare di tornare. E per non essere indifferenti».
La mostra è adatta anche ad un pubblico di studenti perché riesce ad accostarsi anche ai momenti più intensi e delicati con discrezione e i pannelli forniscono informazioni di contesto, per fare in modo che il percorso sia comprensibile a tutti. Costituisce uno spunto di riflessione, un’occasione per riflettere sui segni indelebili tracciati dal tragico passato delle guerre balcaniche, spesso non toccato nei manuali scolastici. Per questo, a partire dal 2016 la mostra ha iniziato a viaggiare nelle scuole italiane: Istituto Tecnico Zanon di Udine, gipsoteca dell’università di Pisa -dove è stata visitata da classi terze e quarte dell’Istituto professionale alberghiero Matteotti, dell’Istituto artistico Russoli e del Liceo Classico Galilei-, Liceo Scientifico Martinelli di Udine, Balkan Florence Express Festival a Firenze, Liceo Internazionale Machiavelli-Capponi di Firenze, Liceo Scientifico Galilei di Siena.
Stimolante è stato l’uso della mostra presso il Liceo Chini di Lido di Camaiore, dove essa ha costituito un tassello del progetto Confini difficili (storie e memorie del Novecento), valevole anche come PCTO.
Far vivere Srebrenica ai giovani: Srebrenica City of Hope
Per superare la memoria pesante del genocidio e renderla speranza, per studiare il passato guardando al futuro è nato nel 2017 il progetto Srebrenica City of Hope, frutto della collaborazione tra l’associazione bosniaca Prijatelji Prirode Oaza Mira, che attualmente lo gestisce, ed il Gruppo Italiano Amici della Natura. Il progetto è ideato da Irvin Mujčić, nato a Srebrenica nel ‘87 e giunto profugo all’età di 5 anni, in Italia di cui ora è cittadino.
Irvin è tornato nella sua città natale non solo per ritrovare le sue radici (e forse qualche resto del corpo del padre, ucciso nel genocidio e ancora disperso) ma anche per far conoscere al mondo la storia e le bellezze di Srebrenica, la romana Argentaria, il cui nome è ormai indelebilmente legato al genocidio, che si commemora l’11 luglio di ogni anno.
L’obiettivo del progetto è quello di promuovere il turismo sostenibile in un’area geografica un tempo nota per le sue bellezze naturali ma oggi ricordata per il genocidio, di risollevare l’economia locale e dare un nuovo volto alla città: non più un museo-cimitero a cielo aperto, ma luogo di speranza.
I visitatori, molti dei quali sono studenti non solo italiani, hanno la possibilità di pernottare presso famiglie ospitanti o nel villagio Ekometa, costituito da 12 case costruite in legno nel bosco, secondo le tecniche tradizionali bosniache.
Varie sono le attività: escursioni guidate (ad es. al Canyon della Drina), passeggiate nei boschi (i villaggi sono collegati tramite sentieri) a piedi o a cavallo, gite in barca, e visite con testimoni e guide professionali al museo-memoriale del genocidio di Potocari, costruito nell’ex base dei Caschi Blu.
Il progetto ha la triplice finalità di far conoscere la storia, la memoria e la loro elaborazione attraverso il racconto orale e la scrittura; far entrare in contatto con il territorio e paesaggio di Srebrenica e l’anima autentica della Bosnia; e fornire una nuova forma di sostentamento per coloro che sono rimasti a vivere in quel territorio reso povero e martoriato dalla guerra.
Estremamente interessante per gli studenti è l’opportunità di incontrare giovani serbi e bosniaci musulmani, come Irvin che si sono assunti il compito di parlarsi e riannodare i fili della vita comunitaria, vivendo magari sulla propria pelle diffidenza, biasimo, accuse di tradimento della propria gente e compiendo uno sforzo enorme. Spesso poi, i nostri studenti sono abituati ad ascoltare testimoni estremamente anziani, l’incontro, invece, con ragazzi poco più che trentenni, con il loro carico di storia, di dolore e di volontà di costruire un futuro di speranza e pace, è per gli alunni molto impressive. Il coraggio con cui Irvin e giovani come lui si sono attaccati alla vita, con cui combattono i loro incubi e progettano il futuro, fa sì che i gli studenti, dopo una esperienza a Srebrenica con loro, tornino a casa più adulti, più maturi, più consapevoli.
Note:
[1] https://www.ushmm.org/learn/podcasts-and-audio/12-years-that-shook-the-world/genocide-1948#:~:text=%E2%80%9CWe%20are%20in%20the%20presence,on%20such%20an%20enormous%20scale. (consultato il 12 gennaio 2023)
[2] Y. Ternon, Lo Stato Criminale. I Genocidi del XX Secolo, Corbaccio, Milano, 1997 pp. 53-117
[3] R. Lemkin, Axis rule in occupied Europe: Laws of Occupation, Analysis of Government, Proposals for Redress, Washington DC, Carnagie Endowment for International Peace, 1944, p. 79: «con genocidio intendiamo l’annientamento di una nazione o di un gruppo etnico […] genocidio non significa necessariamente l’immediato annientamento di una nazione, escluso quando questo viene perseguito attraverso l’uccisione in massa di tutti i membri della nazione. Il termine intende piuttosto indicare un piano coordinato di diverse azioni volte alla distruzione delle condizioni essenziali alla vita di raggruppamenti nazionali, con l’intento di indebolire i gruppi stessi. La realizzazione di un tale piano significherebbe la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e dell’esistenza economica; distruggerebbe la sicurezza personale, la libertà, la salute, la dignità e anche la vita stessa degli individui che appartengono a questi gruppi. Il genocidio è rivolto contro un gruppo nazionale inteso come unità. Le azioni prese in considerazione sono rivolte contro gli individui non nella loro specificità individuale bensì in quanto membri di un gruppo nazionale»
[4] Lemkin, 1944, p. xiii.
[5] Per un approfondimento sul processo che ha portato alla approvazione si veda A. Jones, Genocide, war Crimes & the West, London & New York, Zed Books, 2004, pp. 214-229; per la genesi della formulazione, si veda Ph. Sands, La strada verso Est, Milano, Guanda, 2017, pp. 153-206.
[6] L’espressione nasce dal serbocroato etničko čišćenje, usato dai mass-media locali per documentare la guerra degli anni ’90 nella Ex Jugoslavia.
[7] R. J. Rummel, Lethal Politics, Routledge, New Brunswick, 1992, p. 25; per una carrellata sui genocidi del XX secolo si veda M. Flores, Il genocidio, Bologna, Il Mulino, 2021, pp. 179-195.
[8] S. Power, To Suffer by Comparison?, “Daedalus”, vol. 128, n. 2, 1999, pp. 31-66.
[9] J. Semelin, Purify and Destroy. The Political Uses of Massacres and Genocide, New York, Columbia University Press, 20072, pp. 81-89.
[10] E. Weitz, A Century of Genocide: Utopia of Race and Nature, Princeton, Princeton University Press 2003, pp. 107-109.
[11] A. Pitassio, La federazione perduta. Cronache e riflessioni sulla dissoluzione della Jugoslavia, Perugia, Morlacchi, 2012, p. 43.
[12] Pitassio, 2012, pp. 28-57.
[13] A. D. Smith, Le origini etniche delle nazioni, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 269; E. J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo dal 1780, Torino, Einaudi, 1991, p. 19.
[14] E. Kedourie, Nationalism, London, Hutchinson, 1996, pp. 71-81; S. Mönnesland, National Symbols in Multinational States. The Yugoslav Case, Oslo, Sypress Forlag, 2013, pp. 14-15.
[15] A. Marzo Magno, La guerra dei dieci anni. Jugoslavia 1991-2001, Milano, Saggiatore, 2001, pp. 71-72.
[16] J. Pirjevec, Le guerre jugoslave, 1991-1999, Torino, Einaudi, 2001, pp. 14-54.
[17] V. Rossi, Prima e dopo la violenza. Movimenti di popolazioni nella disgregazione della Jugoslavia, Torino, L’ancora del Mediterraneo, 2001, p. 37.
[18] M. Mann, Il lato oscuro della democrazia: alle radici della violenza etnica, Milano, Egea, 2005, p. 2.
[19] F. De Zulueta, Dal dolore alla violenza. Le origini traumatiche dell’aggressività, Milano, Raffaello Cortina, 1999, p. 23.
[20] S. Petrungaro, Balcani. Una storia di violenza?, Roma, Carocci, 2012, pp. 83-102.
[21] La Republika Srpska è una delle due entità della Bosnia-Erzegovina, nata a seguito del referendum del 9 gennaio 1992, senza alcun fondamento giuridico e contro la costituzione vigente all’epoca. Sotto la guida di Radovan Karadžić, leader del Partito Democratico Serbo, nel periodo compreso tra il 1992 ed il 1995 vi sono stati commessi crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, ai danni della popolazione bosgnacca, che, a seguito della pulizia etnica subita nel conflitto, è calata drasticamente.
[22] Per approfondire i gruppi paramilitari si vedano, D. Mariottini, Dio, calcio e milizia. Il comandante Arkan, le curve da stadio e la guerra in Jugoslavia, Torino, Bradipolibri, 2015; Ch. S. Stewart Arkan, la tigre dei Balcani, Padova, Alet, 2009; M. Guerra, Tigre di Arkan, Modena, Infinito, 2021.
[23] S. Giari, Guerra e crimini sessuali: la svolta dell’ICTY, “Osservatorio Balcani e Caucaso”, 01/09/2009 https://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Guerra-e-crimini-sessuali-la-svolta-dell-ICTY-46703 (consultato il 9 giugno 2023).
[24] E. Suljagić, Cartolina dalla fossa. Diario di Srebrenica, Melito di Napoli, Marotta&Cafiero, 2022, p. 74.
[25] https://digitallibrary.un.org/record/165323 (consultato il 9 gennaio 2023).
[26] L. Rastello, La guerra in casa, Torino, Einaudi, 20202, pp. 244-260.
[27] G. Franzinetti, I conflitti balcanici e le nuove guerre, in Srebrenica fine secolo. Nazionalismi, intervento internazionale, società civile (a cura di W. Bonapace, M. Perino), Asti, ISRAT, 2005, pp. 63-74.
[28] M. Fink, Srebrenica. Chronologie eines Völkermords oder was geschah mit Mirnes Osmanovic, Hamburg, Verlag des Hamburger Instituts für Sozialforschung, 2015, p. 168.
[29] R. Caplan, Post-Mortem on UNPROFOR, London Defence Studies, Brassey’s, 1996, pp.8-12.
[30] I. Dikić, Il metodo Srebrenica, Udine, BEE, 20202, pp. 36-37.
[31] J. Honig, N. Both, Srebrenica: Record of a Crime, London, Penguin, 1996, p. 106; D. Rohde, Endgame: The Betrayal and Fall of Srebrenica. Europe’s Worst Massacre Since World War II, Boulder, Westview, 1997, p. 180.