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Vademecum sull’identità (e dintorni)… Identità, Etnia, Nazione, Radici

Vademecum sull’identità (e dintorni)… Identità, Etnia, Nazione, Radici
Abstract

Mai come in questi ultimi decenni il tema dell’identità è stato così sentito e al centro dell’attenzione mediatica e politica. Le dinamiche della globalizzazione e la moltiplicazione di interazioni, dovuta ai fenomeni migratori, con individui di culture e fedi religiose diverse hanno spesso acuito il timore per una minaccia che graverebbe sul patrimonio culturale a fondamento dell’identità occidentale. Questo articolo, strutturato come un vademecum in due puntate (questa la prima), si ripromette di analizzare criticamente la sfera dell’identità, passando in rassegna una serie di termini e concetti – identità, etnia, nazione, radici, tradizione, cultura, civiltà, frontiera, relativismo – ad essa associate e non di rado utilizzate con estrema disinvoltura e scarso discernimento nel dibattito pubblico.
I rimandi bibliografici in nota consentiranno ulteriori approfondimenti.

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Never in recent decades has the theme of identity been so keenly felt and at the centre of media and political attention. The dynamics of globalisation and the multiplication of interactions, due to migratory phenomena, with individuals of different cultures and religious faiths have often heightened the fear of a threat to the cultural heritage underpinning Western identity. This article, structured as a guide in two parts (this being the first), aims to critically analyse the sphere of identity, reviewing a series of terms and concepts—identity, ethnicity, nation, roots, tradition, culture, civilisation, frontier, relativism—associated with it and often used with great ease and little discernment in public debate.
The bibliographic references in the notes will allow for further exploration.

Chi sono io, chi siamo noi?

Giorgio Gaber, in un brano dello spettacolo Libertà obbligatoria[1], si interrogava sul senso del “sé”, opponendo alla solida figura del nonno la propria ondivaga personalità, indice di un “io” estremamente fragile, instabile, frammentato, in fin dei conti inconsistente[2]: l’amara conclusione della canzone era che “se un giorno noi cercassimo / chi siamo veramente / ho il sospetto / che non troveremmo niente”. Partendo da Gaber, dunque, abbiamo la consapevolezza di come la ricerca e il mantenimento di un solido baricentro risulti essere una basilare necessità psicologica per ogni essere umano. Frutto di una graduale conquista – che ha il suo passaggio più delicato nella fase dell’adolescenza, e di un processo dialettico tra pressioni sociali (lo sguardo altrui modella e determina) e costruzione personale –, l’acquisizione della coscienza conferisce a ciascuno di noi il senso e la certezza di essere l’artefice e il responsabile dei propri pensieri, volizioni, azioni[3].

Un’esperienza «ovvia e scontata», ma che drammaticamente può cessare di essere tale in soggetti affetti da disturbo dissociativo dell’identità o da schizofrenia, gravissima patologia in cui «il cogito può giungere a sembrare il più ambiguo ed evanescente dei fenomeni» e verificarsi «la dissoluzione di ogni sensazione della propria coesione, separatezza o continuità nel tempo»[4]. Il mondo, per costoro, si de-realizza, perdendo senso, coerenza, solidità, leggibilità: una allucinata percezione, ben resa dalle inquietanti tele di Giorgio De Chirico e Yves Tanguy.

“Chi sono io?” non può non richiamare “chi siamo noi?”, risultando strettamente intrecciate dimensione individuale e dimensione collettiva: essere sociale per eccellenza, l’uomo forma il suo “sé” nell’ambito di una specifica società e cultura. Il nodo cruciale pare essere la domanda: chi siamo noi, donne e uomini italiani, europei, figli della società occidentale nell’era della globalizzazione? Insomma, in cosa consiste la nostra identità?

Identità

a) Un mito coriaceo ed esiziale

Difendere la nostra identità sempre più oggetto di attacchi e minacce: questo il tenore di perentorie affermazioni e ricorrenti proclami in cui immancabilmente ci si imbatte sui social o nei vari talk show televisivi. Mai come in questi ultimi decenni si è parlato così tanto e in tono così allarmistico (o sguaiato e violento) di identità, concetto divenuto per molti una vera e propria ossessione[5].

Analogo al greco ταυτότης e derivato da idem (“lo stesso”), identitas è un termine della tarda latinità – appare infatti solo nel IV secolo – attinente alla sfera del sacro, essendo strettamente legato a quella questione teologica (era Cristo della stessa sostanza del Padre?) allora assai dibattuta. Cicerone e Seneca, fa osservare il classicista Maurizio Bettini, non avrebbero compreso il significato del termine e tantomeno potuto rispondere a un’eventuale domanda sulla loro identità romana[6].

Sostanzialmente assente in Freud, utilizzato sul finire degli anni Sessanta dallo psicoanalista Erik Erikson e nel decennio successivo da Heinz Kouht, caposcuola della psicologia del Sé, il concetto di identità è stato pressoché ignorato, sino agli anni Settanta, dalle scienze sociali[7]. Non così ai giorni nostri, in cui questo tema tende sempre più a monopolizzare il dibattito pubblico e politico[8].

Ma cosa intendiamo quando parliamo di identità? Il termine evoca di primo acchito un qualcosa di saldo, permanente, omogeneo, rassicurante, senza il quale verrebbero meno la nostra integrità, stabilità, equilibrio. In realtà, come afferma l’antropologo Francesco Remotti, si tratta di «una finzione che si ammanta di realtà, dando l’impressione di una realtà già acquisita e consolidata»[9]: un mito decisamente pernicioso – l’identità è definita violenta (Amartya Sen), predatrice (Arian Appadurai), assassina (Amin Maalouf), pericolosa (Tony Judt) – ma dalla straordinaria efficacia in merito alla rivendicazione di diritti, beni, privilegi, riconoscimenti sociali.

L’identità, sottolinea Remotti, è una prerogativa degli dei ma non degli uomini, i quali sono costituiti da «intrecci di somiglianze e differenze […] che si compongono e si scompongono sia nel corpo che nell’anima»[10]. La permanenza in vita equivale a una serie ininterrotta di mutamenti, inavvertiti o evidenti, che ci accompagnano dal primo all’ultimo istante della nostra esistenza: essere “me stesso” non può andar disgiunto dalla consapevolezza di come il mio “io” odierno risulti un poco differente da quello di ieri e da quello di domani. Solo i morti possono rivendicare una permanente ed eterna identità.

b) L’evanescenza dell’io

Già Diotima, la sacerdotessa di Mantinea del Simposio platonico, affermava che «noi non restiamo mai gli stessi» e in seguito autori quali Pascal, Locke, Hume (celebre la sua metafora del teatro in cui si susseguono le percezioni), Kant, Nietzsche («un pensiero viene quando ‘esso’ vuole, e non quando ‘voglio io’»), Freud e molti altri ancora hanno messo in luce aporie, criticità e illusorietà di questo tenace concetto su cui tuttora le neuroscienze stanno indagando[11].

Frutto dell’insieme di tutte le esperienze, incontri, apprendimenti, riflessioni, scelte maturate, giorno dopo giorno, nel corso della vita, l’identità di una persona, se proprio non vogliamo rinunciare, come invece auspica Francesco Remotti[12] all’impiego di questo concetto, non può venir concepita come il saldo possesso di un intangibile e immutabile patrimonio, bensì come l’effetto di un incessante processo, di un continuo percorso dallo sviluppo non necessariamente lineare.

Nessun codice a barre ci è stato assegnato, e indelebilmente impresso in fronte, il giorno della nostra venuta al mondo: siamo esseri in divenire, per nostra fortuna. Allora non può sussistere l’alternativa «tra l’esistenza di un io-sostanza e il nulla, il vuoto», perché a dissolversi «non è l’io, la persona, il soggetto, bensì l’idea del loro carattere sostanziale e identitario»[13]. Condivisibile, secondo Zygmunt Bauman, è l’esigenza di “farsi” un’identità, deprecabile ed esiziale la pretesa di “avere” un’identità, fissa e immutabile per tutta la vita[14]: se l’io, come voleva Hume, null’altro è che perpetual flux and movement, ben si comprende il senso di un’espressione bambara, lingua parlata in Mali, per cui «le persone di una persona sono numerose in ogni persona»[15].

Etnia

a) “Noi” e “loro”

Passando dal piano individuale a quello collettivo: siamo quel che siamo in quanto prodotti di una determinata società e cultura. Lungi dal costituire una compiuta entità naturale predefinita, l’io si struttura tramite specifici processi di acculturazione e interazione/opposizione con i propri simili. In primis “noi” siamo tali in quanto diversi da “loro”: l’identità è sempre oppositiva, non potendo prescindere dall’alterità, reale o fittizia che sia. La percezione dell’altro è funzionale, anzi indispensabile, alla costruzione del “noi”: più acuta la distanza avvertita, più forte il senso d’identità.

Non è certo casuale che molti etnonimi esprimano la superiorità del proprio gruppo e, di riflesso, il disprezzo nei confronti altrui: i termini inuit, bantu, apache, per fare alcuni esempi, nelle rispettive lingue significano “uomini”, autodefinizioni che relegano implicitamente ogni altra collettività in un rango inferiore. Stigma imposto, stigma subito: in certi casi il rapporto si capovolge ed è il gruppo dominante ad affibbiare il nome ad un’etnia, quasi sempre poco lusinghiero – eschimesi, ovvero “mangiatori di carne cruda”, sono chiamati gli inuit dagli algonchini – e legato a condizioni inferiori di status. Nome fatto proprio, talora, dallo stesso gruppo stigmatizzato[16]. Egemonia politica, imposizione dei nomi e trasmissione della memoria dei vincitori vanno di pari passo.

b) Lo sguardo “etnicizzante” degli antropologi

Riferito, nell’antica Grecia, a coloro che, come i pastori o i “barbari” (letteralmente “balbuzienti”, in quanto non-parlanti greco), non fossero stati membri di un villaggio e contrapposto, di conseguenza, a polis, sinonimo di comunità omogenea per leggi e costumi, “etnia” reca una perdurante connotazione difettiva rispetto a “nazione”, di cui sembra rivestire i panni del parente povero, agognandone compiutezza, sovranità territoriale, riconoscimento internazionale[17].

Quali i criteri per definire l’etnia? Alquanto opinabili e arbitrari, più frutto degli intenti classificatori dell’antropologia, disciplina sviluppatasi nel corso dell’espansione coloniale e influenzata non poco dalle sue logiche e assunti, che non di parametri oggettivi. È lo sguardo dell’antropologo ad aver suddiviso, frammentato, isolato, insomma “etnicizzato” gli esseri umani studiati sul campo. Sulla scia delle riflessioni di Jean-Loup Amselle sulle “logiche meticce” e consequenziali critiche a un approccio etnologico discontinuista – portato cioè a scorgere e accentuare differenze e distinzioni piuttosto che non sfumature graduali e continuità[18] – in questi ultimi decenni si è assistito alla destrutturazione del concetto di etnia, ricondotto a un’arbitraria designazione di «gruppi fittiziamente dotati di una irriducibile identità linguistico-storico-culturale»: un’operazione che «frantuma la complessità del “fenomeno umano” e lo cristallizza in una serie di isolati discontinui che si prestano a essere classificati, comparati e intellettualmente – oltre che politicamente – dominati»[19].

c) Più di dieci buoi, meno di dieci buoi 

Realtà fittizie, le etnie, e con esse le tanto sbandierate identità esclusive. Costruzioni culturali contingenti effetto di ben precisi rapporti di forza, esse hanno rivelato, nel corso della storia, uno spaventoso potenziale esplosivo, pronto a deflagrare in specifiche circostanze.

Chi erano gli Hutu? Chi erano i Tutsi? Figli dello stesso popolo, soliti distinguersi unicamente per motivi di discendenza familiare. Una realtà destinata a mutare radicalmente con l’avvento del potere coloniale: prima i tedeschi e poi i belgi, a loro subentrati dopo la Prima guerra mondiale, cominciarono ad avvalersi della collaborazione dei Tutsi, appartenenti in prevalenza alla nobiltà del Paese. La svolta si ebbe dagli anni Trenta, con l’imposizione di carte di identità attestanti un’appartenenza etnica stabilita dai colonizzatori. Il criterio? Il numero dei bovini posseduti. Più di dieci? Eri un Tutsi. Meno di dieci? Eri un Hutu. E questo fissato per sempre[20].

Il risultato? L’interiorizzazione da parte degli abitanti del Ruanda, anche dopo l’ottenimento nel 1962 dell’indipendenza del Paese, di un’appartenenza etnica, stabilita dalla burocrazia belga, che ha finito per essere percepita come basilare identità personale e di gruppo. Il conflitto sfociato nel genocidio dei Tutsi nel 1994 è stato il tragico epilogo non di un secolare tribalismo delle genti africane ma di un’etnicizzazione a tavolino operata per fini amministrativi dall’uomo bianco.

 

Nazione

a) Dio lo vuole

La nazione, lo abbiamo detto, sembra essere “il parente ricco” dell’etnia, quello che è riuscito a farsi strada nella storia rivendicando e, in molti casi riuscendo a ottenere, una sovranità territoriale in nome di un popolo dalla specifica e omogenea identità. Termine di origine latina, in epoca medievale “nazione” poteva alludere all’estrazione familiare o sociale o all’appartenenza a una medesima collettività urbana dotata di usi e costumi comuni. Fu con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789[21] che “nazione” acquisì una chiara valenza politica, assorbendo il concetto di patria.

Cosa rendeva tale una nazione? I Romantici avevano le idee chiare in proposito: era la volontà divina ad aver determinato, ab aeterno, la loro esistenza, dotata quindi di un’ontologia naturale. Lungi dal configurarsi come “espressione geografica” (Metternich lo sosteneva a proposito dell’Italia) o mere contingenze della storia, le nazioni rispecchiavano piani ultraterreni, rivendicando ancoraggi metastorici e naturalistici. Per venire alla questione italiana, Alfieri nel Misogallo (1814, pubblicazione postuma) evocava un’unità che «la Natura ha sì ben comandata, dividendola con limiti pur tanto certi dal rimanente dell’Europa» e Mazzini nei Dei doveri dell’uomo (1859), tirando in ballo direttamente l’Essere Supremo, artefice della ripartizione dell’umanità «in gruppi, in nuclei distinti», condannava aspramente «i tristi governi» responsabili, con «divisioni arbitrarie», di aver «guastato il disegno di Dio», destinato in ogni caso a compimento, stante le «innate spontanee tendenze dei popoli» e la peculiarità della nostra patria, la «meglio definita d’Europa»[22]. Nazione, quindi, come dato naturale e oggettivo, spirituale e omogenea realtà sancita dall’avallo divino, di cui gli umani dovevano acquisire piena consapevolezza, portando a compimento la sacra missione.

b) Essere italiani

Celebre il verso «una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue e di cor». In Marzo 1821 Manzoni delineava la nazione come comunità naturale, fatta di legami parentali, memoria storica comune, caratteri originari condivisi: una concezione in cui venivano a saldarsi biopolitica e identitarismo, storia e religione, cultura e sentimento[23. Realtà o auspicio?

Condivisibile è l’osservazione di Benedetto Croce per cui la proclamazione dell’unità italiana faceva appello a un sentimento nazionale che solo l’unità stessa avrebbe potuto creare: com’è noto, a partire dalla proclamazione del Regno d’Italia la classe dirigente liberale si sarebbe accollato l’arduo compito di “fare gli italiani” in una società in cui, per limitarci al solo fattore linguistico, gli italofoni erano pari al 2,5% e in cui lo stesso Cavour e la corte sabauda parlavano e scrivevano in francese. Ci sarebbero voluti Mike Bongiorno e la televisione per uniformare linguisticamente il Paese.

Cosa ci ha reso italiani? Una specifica identità?[24] Di certo non è sulla semplice (ed eventuale) condivisione di una serie di fattori – dallo stile di vita alla gastronomia, dalla musica ai giochi di carte, dal folclore alle forme religiose[25] – che si può fondare una nazione. Dobbiamo forse supporre un “carattere nazionale”[26], sorta di atemporale categoria i cui cinematografici stereotipi – l’italiano opportunista, mammone, individualista, conformista, furbo, pavido, “bravo” e via discorrendo – sembrano fornirci l’alibi per ogni nostra colpa, ritardo, manchevolezza?

Una nazione democratica, ci ricorda Gian Enrico Rusconi, «non è una struttura statuale fissa e indistruttibile» e neppure «un dato etnico disancorato dalle sue forme politiche storiche», bensì «un vincolo di cittadinanza, motivato da lealtà e da memorie comuni»[27]. Una realtà che può cessare di esistere.

La risposta, facendo tesoro della riflessione di Ernest Renan («la nazione è un plebiscito di tutti i giorni»)[28], andrà individuata piuttosto in quel patriottismo costituzionale[29] che, nel coniugare sentimento della patria e valori della Costituzione, è in grado di dar vita a una concezione inclusiva di nazione, fondata sull’adesione ai principi di libertà e democrazia e non certo su appartenenze di tipo etnico, religioso, identitario.

c) L’invenzione delle nazioni

Come nasce una nazione? Riprendiamo il discorso dopo la breve digressione sul caso italiano. La storica francese Anne-Marie Thiesse ha messo in luce come:

la vera nascita di una nazione è il momento in cui un pugno di individui dichiara che essa esiste e cerca di dimostrarlo. I primi esempi non sono anteriori al XVIII secolo, non essendovi nazioni in senso moderno, cioè politico, prima di questa data.[30]

Originata non da una storia antichissima ma frutto di una “invenzione”, la nazione «vive solo per l’adesione collettiva a questa finzione»[31].

Il medievalista Patrick J. Geary ha dimostrato l’infondatezza di quelle teorie che, postulando una netta ed esclusiva coincidenza tra popolo e territorio, fanno risalire al Medioevo le origini delle nazioni europee, in quanto si è rivelata «assai più fluida, complessa e dinamica di quanto immaginino i moderni nazionalisti»[32] la storia dei popoli europei nel corso del primo millennio: nessun momento originario, nessuna acquisizione territoriale primigenia può quindi essere invocata per legittimare, a distanza di decine di secoli, aspirazioni nazionaliste. A voler essere pignoli, l’unico autorizzato a rivendicare il possesso dei territori europei sarebbe l’uomo di Neanderthal, ma per sporgere il reclamo è ormai troppo tardi, essendosi estinto, questo nostro “cugino”, nel volgere di breve tempo proprio in concomitanza con l’arrivo dell’Homo Sapiens, ovvero noi, “immigrati” africani alquanto invadenti e totalmente irrispettosi dei diritti di precedenza[33].

d) Il kit degli attrezzi

Come inventare una nazione? Quale il kit degli attrezzi e le istruzioni per l’uso? Compito degli storici è lo smascheramento di quelle anacronistiche e strumentali letture che hanno avuto l’effetto di trasformare «la nostra visione del passato in una discarica di rifiuti tossici, intrisa dei miasmi del nazionalismo etnico, miasmi che si sono insinuati nei recessi più reconditi della coscienza popolare»[34]. Tanto per cominciare l’esistenza di una nazione presuppone una lingua comune. E in caso di assenza? Nessun problema: la si inventa[35].

Numerosi sono i casi di lingue nazionali create a tavolino nel corso del XIX secolo al fine di legittimare le ideologie nazionaliste; si promuove un dialetto, si mette a punto una grammatica, si stabilisce la trascrizione grafica, si compila il dizionario, si approntano i necessari neologismi e il gioco è fatto[36]. Per riportare un solo esempio: fu una riunione, tenutasi a Vienna nel 1850, tra scrittori croati, filologi serbi e grammatici sloveni a decretare la nascita del serbo-croato quale unica lingua degli slavi trascritta in due alfabeti. Infondate sono anche le pretese di risalire a una mitica proto-lingua indoeuropea, depositaria della cultura autentica, da cui sarebbero successivamente scaturite le altre. Il modello dell’albero genealogico non funziona perché non tiene conto delle evoluzioni linguistiche determinatesi a seguito di contatti, scambi, prestiti e così via.

Oltre alla lingua molti altri elementi concorsero alla nascita delle nazioni: si andò da una rilettura ad hoc della storia passata all’esaltazione di eroi prototipi, dalla riscoperta del patrimonio folcloristico[37] all’esaltazione del paesaggio, dalla creazione di inni e bandiere all’esaltazione di millenarie tradizioni. Un processo di “filiazione inversa” (Gérard Lenclud), per cui furono i figli a generare i padri e non viceversa. Un artifizio, quindi, ma quanto mai coriaceo e longevo, dimostratosi in grado di infiammare gli animi delle masse, soppiantare altre ideologie e dottrine internazionaliste, attecchire anche nei continenti extraeuropei e scatenare – cosa peggiore – atroci conflitti e massacri.

Radici

a) Uomini o vegetali?

Quella delle radici è una metafora cui hanno fatto ricorso, legittimamente, schiere di poeti, narratori, cantanti. Altro è il discorso quando questa immagine viene utilizzata dai fautori dell’identitarismo nazionalista.  La nazione è tale, si afferma, in virtù di una specifica identità e l’identità deriva dalle radici, la cui difesa e preservazione diviene un imperativo categorico, pena il venir meno della linfa vitale. Il classicista Maurizio Bettini invita a riflettere sul fatto che «le immagini non sono oggetti neutri, anzi molto spesso hanno la capacità di condizionare fortemente la nostra percezione della realtà. La metafora non è solo ornamento, è anche potente strumento conoscitivo»[38]. Del resto “chi parla male pensa male e vive male”, ammoniva Nanni Moretti in un suo film, invitando a “trovare le parole giuste: le parole sono importanti”[39].

A cosa rimanda questa metafora arboricola? A una concezione fissa e statica dell’identità e della tradizione culturale di un gruppo o di una nazione. Un albero trascorre l’intera esistenza laddove ha messo le radici e non può certo muoversi e spostarsi. Siamo nell’ambito dell’ordine naturale, della necessità biologica, dell’ineluttabile destino: così è e così deve essere. La potenza di questa metafora consiste nel veicolare l’idea che gli elementi basilari di una cultura possano essere passivamente assimilati dal singolo così come una pianta assorbe il suo nutrimento dalle radici: un processo organico e lineare che non richiede alcuna scelta, assenso, volizione. Il binomio Blut und Boden (“sangue e suolo”), di infausta memoria, non è così distante.

Gli uomini non sono però vegetali ancorati al terreno: se così fosse l’Homo Sapiens continuerebbe a stazionare dalle parti dell’odierna Etiopia e non avrebbe popolato l’intero pianeta. Se è innegabile, per la formazione dell’individuo, l’importanza del contesto socio-culturale, ciò non comporta però il pieno, totale e acritico recepimento dei suoi presupposti: essere figli di una cultura significa interagire con essa, avere la possibilità di dissentire, discostarsi dal canone consolidato e dal conformismo della maggioranza, intraprendere nuovi percorsi, dischiudere inedite prospettive. In sintesi, aver facoltà di scelta.

Non è così che funziona per una quercia o un castagno.

b) A proposito delle radici europee

 In occasione del varo nel 2003 della Costituzione europea, mai entrata in vigore per la mancata ratifica di alcuni stati europei e definitivamente abbandonata nel 2007, accese discussioni furono suscitate dalla richiesta, da parte della Chiesa cattolica, di un preambolo che facesse riferimento alle radici cristiane dell’Europa. La polemica aveva rilanciato con forza alcune cruciali questioni identitarie: in cosa consiste l’Europa? Quali i tratti distintivi della sua cultura? Quali le sue radici fondanti?

A trapelare era l’idea di un’identità collettiva immutabile, di un canone culturale fissato una volta per sempre, di una compiuta essenza sottratta alla storia e al divenire. Il filosofo Pietro Rossi ha affermato che l’identità europea non deve essere cercata in un passato idealizzato o in un futuro sperato, ma andrebbe piuttosto ricostruita nel suo processo di formazione storica[40]. Se le varie radici possono certamente essere oggetto di distinzione analitica, la realtà di ciò che chiamiamo Europa richiama un complesso intreccio di elementi – dalla cultura greca al diritto e ai costumi romani, dalla religione cristiana alla dialettica con il mondo islamico, dal Rinascimento all’illuminismo, dalla rivoluzione scientifica alla secolarizzazione, dal liberalismo al pensiero democratico – che nel corso dei secoli hanno contribuito a realizzare quella cultura in cui ci riconosciamo e che non possono pertanto essere sottoposti ad una lettura selettiva.

Fautore del concetto di “scarto”, quale utile strumento euristico per affrontare la diversità delle culture[41], François Jullien invita a riflettere sul fatto che l’Europa, al tempo stesso cristiana e laica, «si è sviluppata nello scarto tra ragione e religione, un “tra” che non è un compromesso, una semplice via di mezzo, ma un metterli entrambi in tensione ravvivandoli», giungendo a concludere che «rispetto a questo, qualunque definizione della cultura europea, qualunque approccio identitario all’Europa, non è soltanto terribilmente riduttivo e pigro, ma sminuente, deludente e demotivante»[42].


Note:

[1] G. Gaber, Il comportamento, in Libertà obbligatoria (1976). Per il video della canzone cfr. https://www.youtube.com/watch?v=ukk2p84WLaE.

[2] “Mio nonno è sempre mio nonno / è sempre Ambrogio in ogni momento / voglio dire che non c’ha problemi di comportamento” […] io non assomiglio ad Ambrogio / l’interezza non è il mio forte / per essere a mio agio / ho bisogno di una parte”. Il ritornello – “se mi viene bene / se la parte mi funziona / allora mi sembra di essere / una persona” – evidenzia il camaleontico comportamento del protagonista, pronto ad adottare differenti personalità a seconda delle situazioni ma anche in grado di riconoscere il carattere fittizio di questa messa in scena (“ma da oggi ho voglia di gridare / che non sono stato mai me stesso / e dichiaro senza pudore / che io recito come un fesso”).

[3] Cfr. la voce Identità, di Giovanni Jervis, in F. Barale, M. Bertani, V. Gallese, S. Mistura, A. Zamperini (a c. di), Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze, Einaudi, Torino 2006, vol. I, pp. 504-09. L’estensore della citata voce riconosce peraltro come il concetto di identità mantenga carenze di definizione teorica.

[4] L. A. Sass, Follia e modernità. La pazzia alla luce dell’arte, della letteratura e del pensiero moderni, Raffaello Cortina, Milano 2013, p. 253.

[5] Cfr. F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, Bari-Roma 2010.

[6] M. Bettini, Hai sbagliato foresta. Il furore dell’identità, il Mulino, Bologna 2020.

[7] Eric J. Hobsbawm faceva notare l’assenza, ancora nel 1968, della voce “identità” nella Enciclopedia internazionale delle scienze sociali se non in riferimento alle dinamiche psicosociali degli adolescenti.

[8] In Francia, durante la campagna elettorale del 2007, Nicolas Sarkozy ha lanciato l’idea di creare un Ministero dell’Identità nazionale.

[9] F. Remotti, Somiglianze. Una via per la convivenza, Laterza, Roma-Bari 2019, p. 36.

[10] Remotti, 2019, p. XXIII.

[11] Mi limito, a livello puramente indicativo, a indicare M. S. Gazzaniga, La coscienza è un istinto. Il legame misterioso tra il cervello e la mente, Raffaello Cortina, Milano 2019; E. Boncinelli, M. Di Francesco, Che fine ha fatto l’io?, Editrice San Raffaele, Milano 2010.

[12] “Oggi siamo disposti a sostenere che si può fare a meno dell’identità” (Remotti, 2010, p. XVIII). Alle richieste di “riconoscimento identitarie”, assolute e totalizzanti, l’autore oppone le richieste di “riconoscimento non identitarie”, meno perentorie, più pragmatiche e aperte al dialogo e alla negoziazione.

[13] Remotti, 2019, p. 274.

[14] Z. Bauman, La società dell’incertezza, il Mulino, Bologna 1999, p. 67.

[15] Cit. in M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004, p. 57.

[16] I beduini (“abitanti del deserto”), furono così chiamati dagli abitanti della città; “slavo”, dal latino sclavus, evoca un passato di schiavitù sotto l’impero romano, così come Welsh (gallese), ricorda come questo popolo fosse stato fonte di ricchezza (wealth) per i proprietari del tempo. “Ebreo” sembra derivare da un termine semitico (habiru) indicante il fuggiasco, colui che cerchi di sottrarsi al potere dell’autorità (cfr. U. Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Carocci, Roma 2020, p. 42).

[17] Anche il concetto di “tribù”, gruppo costituito da lignaggi che si riconoscono discendenti da un unico antenato (reale o fittizio), è stato sottoposto a critiche crescenti a partire dalla metà degli anni ’60.  Nel linguaggio corrente “tribù” ha una connotazione negativa, evocando primitivismo, rozzezza, indistinzione (cfr. ivi, pp. 61-65).

[18] J-L. Amselle, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Bollati Boringhieri, Torino 1999.

[19] Fabietti, 2020, p. 66.

[20] I Tutsi risultarono il 15% della popolazione, gli Hutu l’84%, i Twa l’1%.

[2] “il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che da essa non emani espressamente” – art. 3

[22] Nel rituale mazziniano di affiliazione alla Giovine Italia si poteva leggere: «[…] Io N.N. credente nella missione commessa da Dio all’Italia […] convinto che dove Dio ha voluto che fosse Nazione esistono le forze necessarie a crearla».

[23] Sull’allegoria dell’Italia-madre e sulle retoriche patriottiche cfr. A.M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza, Roma-Bari 2011.

[24] Cfr. C. Raimo, Contro l’identità italiana, Einaudi, Torino 2019.

[25] Cfr. R. Romano, Paese Italia. Venti secoli di identità, Donzelli, Roma 1997. Si veda in proposito la collana “L’identità italiana”, diretta da Ernesto Galli della Loggia per la casa editrice il Mulino.

[26] Cfr. S. Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Roma-Bari 2010. Si veda anche G. Bollati, L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, Torino 2011.

[27] G.E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, il Mulino, Bologna 1993, p. 8.

[28] Il celeberrimo passo è tratto dalla conferenza, intitolata Qu’est-ce qu’une nation, tenuta da Renan alla Sorbona l’11 marzo 1882 (E. Renan, Che cos’è una nazione?, Donzelli, Roma 2004).

[29] Il concetto è stato formulato da Dolf Sternberger e Jürgen Habermas.

[30] A.M. Thiesse, La creazione delle identità nazionali in Europa, il Mulino, Bologna 2001, p. 7.

[31] Thiesse, 2001, p. 10.

[32] P.J. Geary, Il mito delle nazioni. Le origini medievali dell’Europa, Carocci, Roma 2009, p. 29.

[33] Cfr. G. Barbujani, Europei senza se e senza ma, Bompiani, Milano 2008.

[34] P.J. Geary, 2009, p. 31.

[35] “Dalla formulazione iniziale: «La nazione esiste perché ha una lingua», si passa, quando per tutta l’Europa si diffonde l’idea nazionale, a una formulazione completamente diversa: «La nazione esiste, dunque bisogna darle una lingua»” (A.M. Thiesse, op. cit., p. 65)

[36] Thiesse riporta le vicende linguistiche concernenti Norvegia, Israele, Albania, Paesi slavi, Grecia, Romania, Bulgaria.

[37] “Folklore” è stato coniato nel 1847 da William John Thoms, bibliotecario del parlamento inglese e ammiratore dei fratelli Grimm. “Fakelore”, ovvero “falso folklore”, è il neologismo polemicamente creato dall’etnologo Richard Dorson.

[38] M. Bettini, Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, il Mulino, Bologna 2011, p. 20.

[39] Palombella rossa (1989).

[40] P. Rossi, L’identità dell’Europa, il Mulino, Bologna 2007. Per un dossier didattico su questo tema cfr. P. Battifora, Alla ricerca dell’identità europea. Strumenti concettuali, storia e un dossier didattico, Novecento.org, n. 9, febbraio 2018.

[41] Il concetto di “scarto”, non avendo la funzione, al contrario di “differenza”, di classificare e stabilire delle tipologie, favorirebbe il superamento della prospettiva identitaria e la rivelazione di inedite risorse (F. Jullien, L’identità culturale non esiste. Einaudi, Torino 2018).

[42] Julian, 2018, p. 44. Tzvetan Todorov ha scritto che “l’identità europea consiste, pertanto, in una maniera di accettare la pluralità delle entità che formano l’Europa e di trarne profitto. L’Europa non è una nazione, ma una forma di coabitazione di nazioni […]  se l’Europa è un club, allora sarebbe un ‘club laico’: la sua esigenza è quella della libertà di coscienza e di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge” (La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2009, pp. 248, 263).