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Vedere lo sterminio

Vedere lo sterminio
Abstract

Dal riso di Chaplin alle ricerche d’archivio di Resnais, dai pochi minuti dei cinegiornali delle truppe all’arrivo nei campi di concentramento ai monumenti memoriali di Lanzmann o Godard, dalle convenzioni spettacolari di Holocaust alle strategie formali del found footage, il saggio ripercorre alcune delle domande che hanno caratterizzato la produzione e la riflessione intorno al rapporto tra la Shoah e l’immagine cinematografica. In che modo è rappresentabile lo sterminio di massa e il tentativo di oblio della memoria di un popolo? In che modo il cinema ha reagito al vuoto d’immagini sui campi durante la guerra, tendando di farsi testimoniale?

Ridere

«Se avessi conosciuto gli orrori dei lager tedeschi, non avrei mai potuto girare Il grande dittatore, mai avrei potuto ironizzare sulla follia omicida dei nazisti»[1]. Il ripensamento di Chaplin tocca uno degli aspetti più controversi del rapporto tra cinema, e più in generale tra le arti, e la Shoah. Si può ridere dello sterminio di massa? L’immaginazione narrativa deve ritrarsi di fronte al compito etico della memoria di quel che è stato? Il ripensamento di Chaplin appare ancora più motivato, quando vediamo il protagonista del Grande dittatore (1940) [https://vimeo.com/75087018], il barbiere ebreo delineato sui tratti di Charlot, poter leggere la corrispondenza o marciare seguendo un proprio passo dell’oca durante la propria prigionia in un campo di concentramento, dando così un quadro del tutto irreale della vita nei lager tedeschi. Ma il Grande dittatore non si riduce a queste imprecisioni storiche, né deve la sua capacità di far vedere qualcosa di quel che è stato al celebre discorso finale del barbiere ebreo. Questi, nei panni del dittatore Hynkel/Hitler, rivolge all’umanità parole di affratellamento e di speranza, tanto condivisibili a livello sentimentale, quanto deboli nella diagnosi della «follia omicida dei nazisti», perché interpretata in una chiave consolatoria, quella di una decadenza dei valori, ai quali contrapporre una rinnovata fiducia nei valori eterni dell’umanesimo. La forza di visione del Grande dittatore sta in altro, sta proprio nello sforzo di Chaplin di riprendersi i baffetti di Hitler, secondo una celebre formula del grande critico André Bazin[2]. Vedere Charlot in Hitler e Hitler in Charlot, vedere nell’aggressività della gestualità hitleriana l’evoluzione dell’apparente innocenza del movimento sgraziato eppur armonioso del vagabondo chapliniano, e al contempo riconoscere nella violenza della mobilitazione totale della politica novecentesca il retro dell’anonimato della figura con bombetta e pantaloni e scarpe troppo grosse, il retro di quel singolo ridotto a essere come tutti e quindi a essere nessuno, quel singolo già pochi anni prima raffigurato nella suo tentativo disperato di assorbire e mantenere i ritmi della macchina alla catena di montaggio di una fabbrica (Tempi moderni, 1936).

Il grande dittatore

Il grande dittatore (1940)

Il rovesciamento metafisico della logica identitaria, e quindi della logica che muove la ragione omicida dei nazisti (e di quanti altri regimi totalitari), è ciò che può farci vedere il comico che entra nei campi. Per farlo, ha dovuto “smontare” l’archetipo-Charlot. Il riso è il sovvertimento di ogni pretesa di definizione in nome della razza (o del popolo, o della classe, o di qualsivoglia identità collettiva). Il riso piuttosto ci mostra come possano coabitare nello stesso corpo pulsioni e desideri e progetti contrastanti. Come si possa assomigliare per caso a un dittatore (o a un barbiere). Anche quando il cinema comico ha mostrato consapevolezza di questa vertigine metafisica, raramente i risultati estetici sono stati all’altezza del Grande dittatore (o di Vogliamo vivere!, 1942, con regia di Lubitsch[3]), soprattutto quando la macchina da presa ha tentato di varcare il limite del campo di concentramento e di ambientare dentro quello spazio il gioco identitario. L’esempio più rinomato e discusso è stato La vita è bella di Benigni, ma si possono ricordare anche Jakob il bugiardo (Kassovitz, 1999) e Train de vie (Mihaileanu, 1998) probabilmente il più riuscito tra questi. Ma è Zelig (Allen, 1983), il falso documentario di Allen su un ebreo emarginato degli anni Trenta, che cerca in modo camaleontico di assomigliare a chiunque incontri pur di combattere la propria solitudine di uomo anonimo, addirittura accompagnandosi ai propri potenziali carnefici (Zelig salirà su un palco con Hitler durante un’adunata nazista), il film comico che più di tutti corrisponde a questa vertigine metafisica. Il mimetismo psico-somatico di Zelig (il “benedetto” in yiddish) è speculare all’apparente mimetismo realistico del genere documentario [https://www.youtube.com/watch?v=KRGAYJDY828]. Il conformismo di Zelig è lo scandaglio più profondo e inquietante che la visione comica del mondo ha prodotto intorno a ciò che ha reso possibile il processo di distruzione nazista. Non a caso, tra gli specialisti chiamati da Allen a tracciare una diagnosi, all’interno del film stesso, del personaggio di Zelig, ci sarà Bruno Bettelheim[4].

Piangere (a Hollywood)

Per molti non può però essere il riso, ma il pianto la reazione che il cinema deve pretendere dai propri spettatori mentre vedono i campi nazisti. Per molti, il riso non può confrontarsi con la distruzione di massa. L’atteggiamento migliore sarebbe allora quello di Jerry Lewis, che dopo aver girato nel 1972 la storia di un clown all’interno di un campo di concentramento (The Day the Clown Cried), decide di non montare il materiale filmato e di impedirne la proiezione, così da renderlo uno dei film incompiuti più celebri della storia. Ma se deve essere il pianto, come l’immaginazione narrativa può rendere giustizia a un processo di persecuzione che non ha reso eroi, ma ha piuttosto condotto la messa al bando del perseguitato al suo grado più estremo? Quando ripercorriamo la storia del cinema hollywoodiano, ossia della più importante fabbrica dell’immaginario dell’uomo del Novecento, ci troviamo di fronte a opere che perlopiù pongono al centro figure sacrificali, martiri attraverso la cui morte si è comunque compiuto un processo di redenzione dell’umanità, uscita dalle tragedie della Seconda Guerra Mondiale. Opera emblematica in tal senso è Il diario di Anna Frank (Stevens, 1959) che, nel finale imposto dalla 20th Century Fox al regista, mostra un cielo nuvoloso, solcato dal volo di gabbiani, mentre la voce da un fuoricampo assoluto di Anna Frank, oramai morta, commenta: «nonostante tutto io credo ancora che la gente sia buona».

Pur nelle convenzioni di un’opera interpretata da grandi star del cinema hollywoodiano (tra gli altri, Spencer Tracy, Burt Lancaster, Marlene Dietrich, Montgomery Clift) è Vincitori e vinti (1961, Kramer) il film americano più interessante in questi primi decenni. Vincitori e vinti è la trasposizione del terzo processo di Norimberga, intentato nel 1948 contro quattro giudici tedeschi. Oltre a essere un’efficace ricostruzione del clima politico della Germania (e di Berlino) nelle settimane che introducono alla Guerra fredda, oltre a essere un’interessante analisi psicologica, sia delle resistenze dei cittadini tedeschi a essere richiamati alla propria colpa collettiva, sia della progressiva consapevolezza di un americano “medio”, formatosi alla scuola dei valori liberal-democratici (come è appunto il protagonista, il giudice Haywood, interpretato da un attore iconico come Spencer Tracy), Vincitori e vinti si ricorda soprattutto per una sequenza sconvolgente. Durante la sua requisitoria, il pubblico ministero proietta alcune sequenze dei documentari girati dagli Alleati all’entrata nel campo di Buchenwald. La ricostruzione finzionale, il racconto storico si apre all’impronta della realtà. Durante quei pochi minuti, le immagini non sono la riproduzione mimetica di qualcosa che è accaduto, ma provengono per contatto da quel passato. Proprio la struttura processuale del racconto fa sì che quelle immagini strappate all’oblio non siano soltanto pretesto per una facile commozione, ma siano oggetto di discussione, di confronto, anche di silenzio. Nonché di una messa a distanza, che impedisca qualsiasi illusoria forma di immedesimazione e di condivisione completa dell’esperienza del campo.

Schindler's List

Schindler’s List (1993)

Lì dove la narrazione drammatica mette al centro un eroe e/o martire, la vittima innocente attraverso la cui azione e sacrificio si ricostituisce un mondo-in-comune, attraverso cui sono salvati i valori fondamentali dell’essere umano, si sublima e al contempo si cancella la specificità della violenza dei campi, si cancella il carattere anonimo e di massa di quella morte. Si cerca la sensatezza di un sacrificio, l’assunzione responsabile del proprio morire, lì dove la messa al bando vissuta dal prigioniero ha ridotto questi a uno stato di passività psico-fisica inedita, la cui figura iconica è rimasta quella dei corpi dei musulmani, i prigionieri dal corpo scheletrico, dominati dalla fame, dalle infezioni, ridotti a uno stato d’inedia che precede la morte. Molti anni dopo, sul finire del secolo, sarà Spielberg a mostrare la maggiore consapevolezza delle possibilità ma anche dei limiti offerti dal registro dell’immaginazione narrativa drammatica. Dei limiti, perché Schindler’s List (1993) potrà raccontare dei salvati per caso dallo sterminio, non dei sommersi, e metterà al centro della sua narrazione un eroe, per quanto dai tratti problematici, ma comunque in grado, di fronte alla violazione della dignità umana, di ricordarsi dei valori minimi che ci legano l’un altro come esseri umani. E delle possibilità, perché con un uso altamente formale del registro dei colori, Spielberg ci farà commuovere di fronte alla piccola bimba, di cui riconosceremo il cappottino rosso tra gli oggetti confiscati ai condannati; al contempo ci ricorderà che lei è soltanto uno delle innumerevoli vittime innocenti, perse nell’orizzonte della Storia, e metterà subito a distanza quel dolore, per inquadrarlo nel contesto altrimenti difficilmente immaginabile della morte di massa [https://www.youtube.com/watch?v=o_EBeLtCxT0]. Schindler’s List, pur lavorando sui tipici procedimenti catartici della tragedia, nega allo spettatore la possibilità di cullarsi nell’illusione che la storia di quei sopravvissuti sia immagine esemplare, tipica, di quel che è stato. Spielberg ci darà l’illusione di poter entrare con la macchina da presa dentro una camera a gas, poi con una scelta fortemente discussa, ma profondamente motivata, farà scendere da quelle docce soltanto acqua. La macchina da presa non può raffigurare dall’interno la camera da gas, non può superare il limite che separa la nostra esperienza da quella dei prigionieri gasati. Non può narrare appunto, se non alludendo a essa come al fuoricampo che aleggia in ogni inquadratura, la morte di massa dentro quelle camere a gas.

Piangere (e fare delle topografie)

Il film di Spielberg segna una stagione, quella sul finire del secolo trascorso, in cui a differenza di quello che avveniva nell’immediato dopoguerra, è la persecuzione degli ebrei a essere raffigurata dal cinema hollywoodiano ed europeo come il cuore della violenza nazista, anche se permane sempre la difficoltà di raccontarla nei gradi più estremi, quelli che si realizzano nei campi di concentramento e di sterminio. La lista dei film che dal dopoguerra in poi hanno comunque cercato di raccontare in chiave drammatica tale violenza è enorme e a volte, come nel caso del Pianista (2002) di Polański, esibisce la consapevolezza drammaturgica di Spielberg. Il cinema europeo, rispetto a quello americano, ha preferito raccontare di resistenti, piuttosto che di martiri/eroi, e in questo modo ha provato a ricostruire la dimensione politica della messa al bando, nonché della vita nei campi. Il quadro è anche qui difficilmente sintetizzabile in poche righe, e risente spesso e dell’epoca in cui il film è stato prodotto e delle diverse dinamiche di persecuzione a cui le diverse comunità europee hanno assistito e partecipato. Per questa primaria ragione, di natura pressoché fenomenologica, è il cinema polacco quello che più da vicino è riuscito a raccontare il cuore della violenza nazista. Proprio perché è potuto tornare dentro quei campi, ha potuto riattraversare quei binari, ha potuto camminare in mezzo a quelle foreste in cui sono stati bruciati i corpi. Aldilà di qualsiasi capacità drammaturgica, ha impresso sulla propria pellicola quei luoghi della memoria, prima che diventassero luoghi di commemorazione ufficiale. Sono stati in particolare due film a valorizzare questa dimensione fenomenologica della macchina da presa: L’ultima tappa (Jakubowska, 1948) [https://www.youtube.com/watch?v=jngFlQ-Ej8U] e soprattutto La Passeggera (Munk, 1963) [https://www.youtube.com/watch?v=qvYE-crteYY].

La Passeggera (1963)

La Passeggera (1963)

Quest’ultimo è ancora oggi il film drammatico che riesce a scandagliare più in profondità l’enormità della violenza nazista. È la storia di una carnefice nazista che, su una nave da crociera, crede di riconoscere in una passeggera i tratti di una sua prigioniera (una resistente polacca) ad Auschwitz. Munk ci mostra il lavoro della memoria, della falsificazione e della proiezione della memoria, facendo raccontare alla carnefice due volte il proprio passato, così da esibirne le distorsioni, volontarie e involontarie. Munk morì improvvisamente per un incidente automobilistico e il film fu “completato” dai suoi collaboratori, con una scelta esteticamente tanto azzardata quanto riuscita. Le parti non completate riguardavano le scene ambientate al presente sulla crociera: i collaboratori non provano a terminarle, ma usano alcune foto di scena del materiale girato, con una voce over che le spiega. Il presente appare così una sequenza di immagini sfocate, spettrali, fisse, provenienti da chissà dove; immagini di una comunità ignara, in viaggio in un non-luogo come una nave crociera, senza alcuna destinazione dichiarata. Il passato dei campi è invece mostrato al presente, come scena per quel lavoro di rielaborazione continua della memoria che, rispetto però all’origine letteraria del soggetto[5], ha la possibilità di mostrare i luoghi della persecuzione, di camminare lungo quel filo spinato. Munk compone il quadro visivo oscillando tra dei campi medi, nei quali emerge la dialettica di stampo hegeliano tra la carnefice, sedotta dalla propria prigioniera, e la vittima-resistente e perciò libera spiritualmente, e i campi lunghi o le panoramiche, con i quali ci ricorda che dietro questa violenza psicologica e fisica, ma ancora immaginabile secondo i canoni della narrazione di soggetti agenti, di individui, si agita quell’orizzonte inimmaginabile psicologicamente di una massa sulla quale altri carnefici nazisti stanno compiendo crimini efferati e insensati. Come mettere in immagine qualcosa che sembra sfuggire alle possibilità della narrazione? Attraverso la nuda descrizione fenomenologica? Attraverso la speculazione metafisica?

Giudicare ( e imparare a guardare)

Ancora prima del riso, ancora prima del pianto, guardare. E allora il punto di partenza non possono che essere le riprese dei soldati all’entrata dei campi di concentramento, quelle riprese quasi sempre in bianco e nero, quei piano-sequenza e quelle lunghe panoramiche e quei campi totali ottenuti con riprese aeree, quelle riprese con pochi tagli di montaggio e con i soldati testimoni che compaiono nelle stesse inquadrature con i sopravvissuti e i cadaveri, quelle immagini di un orrore osservato nella sua vastità, di un orrore come si presenta all’occhio “ignaro”. Sono immagini costruite secondo una grammatica visiva semplice quanto efficace, con uno scopo su tutti: assicurare lo spettatore dell’autenticità di quello che sta vedendo. Queste immagini si inserivano all’interno del piano Morgenthau, con cui Roosevelt e Churchill già dal settembre 1944 avevano stabilito di rieducare la popolazione civile tedesca. Le testimonianze fotografiche e cinematografiche, più sicure per motivi igienici delle iniziali visite obbligatorie ai campi, permettono di prolungare un atto d’accusa e saranno poi una delle basi documentarie per i processi. A Norimberga saranno presentati due filmati di circa un’ora, I campi di concentramento nazisti (documento USA – 79) [http://www.dailymotion.com/video/xk62t8_nazi-concentration-camps_webcam],realizzato sotto la direzione di Ray Kellogg, e Le atrocità degli invasori tedesco-fascisti in Urss (documento URSS – 81), a cui sono da aggiungere quello britannico su Bergen Belsen (The Memory of the Camps, curato da Hitchcock, con la regia di Sidney Bernstein, recentemente rieditata grazie all’interessamento dell’Imperial War Museum di Londra)[6] e un montaggio di cinegiornali francesi, I campi della morte, proiettato in occasione di una mostra sui crimini nazisti a Parigi nel giugno 1945.

Dal D-Day a Berlino (1994)

Dal D-Day a Berlino (1994)

Nonostante le ricerche di una squadra dei servizi segreti americani, creata da John Ford, gli Alleati trovarono pochissime immagini dei crimini nazisti, girate da loro stessi. Alle riprese “ufficiali” degli Alleati, sono poi da aggiungere delle riprese “amatoriali”, rimaste per molti decenni nella sfera dell’intimo: quelle di due registi come Samuel Fuller, che con la cinepresa donatagli dalla madre filma in 16 mm l’entrata nel campo di Falkenau, e come George Stevens, che con una cinepresa personale, dotata di una nuova pellicola, la Kodachrome a colori, durante una deviazione dei soldati verso Dachau filma la liberazione del campo. Quelle immagini a colori, non previste, saranno assemblate 40 anni dopo dal figlio, per un documentario intitolato Dal D-Day a Berlino 1944 [http://www.dailymotion.com/video/x3j9e6_liberation-of-dachau-in-color_people]

Il piano Morgenthau sarà presto superato dall’esigenza di riconciliazione con il popolo tedesco, in vista del nuovo ordine geo-politico venutosi a creare con la Guerra Fredda. Ma quella pedagogia dell’orrore lascia un’impronta indelebile nell’immaginario collettivo. Segna, di contro a ogni forma di revisionismo (negazionismo) storico, un punto d’arresto ineludibile: qualcosa è stato. Ma comporta anche una grammatica visiva e un’iconografia dell’orrore, che per molti anni condizionerà l’elaborazione formale del materiale documentario. Nonché, produrrà una sovrapposizione, probabilmente difficilmente evitabile, tra uso pedagogico, giudiziario, simbolico e storiografico delle immagini d’archivio.

Imparare a guardare, allora. Lo shock visivo dei primi cine-operatori, e al contempo l’obbligo di rispettare una grammatica visiva già prefissata, hanno impedito che immagini scivolassero nel voyeurismo del dolore. Le reazioni pressoché afone dei prigionieri hanno accentuato l’impossibilità di creare un’empatia piena. I corpi dei musulmani dei campi sembrano abitare uno spazio ancora diverso rispetto a quello di chi sta riprendendo (e guardando). La distanza che quelle prime immagini hanno saputo raggiungere, al di là dell’uso a volte confuso che ne è stato fatto, rimane un insegnamento a cui la riflessione teorica è tornata più volte. Un testo su tutti, De l’abjection, un breve testo di Jacques Rivette, pubblicato sui Cahiers du cinéma nel giugno 1961, con il quale enuncia quel divieto etico-estetico, che sarà poi condensato nella formula del carrello di Kapò. In quel film di Pontecorvo del 1959, un movimento di macchina andava a stringere sul corpo agonizzante di una prigioniera. In quel carrello, Pontecorvo, pur di “vedere meglio” e in modo più efficace suscitare l’immedesimazione dello spettatore, non rispettava la giusta distanza che la macchina da presa deve sempre mantenere di fronte alla morte, e ancora di più di fronte alla morte anonima e di massa dei prigionieri dei campi. Nessun’empatia, nessun mondo- in-comune, forme con le quali chi guarda sublima e rimuove la distanza ontologica che c’è stata tra il messo al bando e il cittadino, tra chi ha vissuto l’esperienza di prigionia nei campi e chi è rimasto fuori da quei cancelli.

Come esempio di tale rispetto etico-estetico è stato portato per anni Notte e Nebbia (Resnais, 1955), documentario con materiale d’archivio volto a ricostruire la logica politica della vita dei campi. Tornando a distanza di decenni su quel film, che rimane tra quelli che ci hanno insegnato a vedere, emerge però oramai anche con chiarezza piuttosto il lavoro di sovrapposizione e di negoziazione tra le diverse istanze prima richiamate. Il compito memoriale e storiografico sta alla base del progetto di Resnais, che nasceva come evoluzione di una mostra su «Resistenza, Liberazione, Deportazione», tenuta a Parigi al Museo Pedagogico a rue d’Ulm e organizzata dagli storici Henri Michel e Olga Wormser, collaboratori della Réseau du souvenir. Questa iniziale spinta sconta lo stato della ricerca negli anni Cinquanta. Come testimoniato anche dall’antologia di testimonianze Tragédie de la déportation, curato sempre dalla Wormser, erano ignorate la sorte specifica dei deportati ebrei, nonché la radicale differenza con quelli di sterminio (Chelmno, Sobibor, Treblinka non sono neanche riportati nell’antologia). La descrizione dei campi era modellata su un modello di campo, che era quello concentrazionario dell’Ovest, in particolare Buchenwald.

Resnais opera diverse negoziazioni concettuali. La prima è tra il modello di campo come descritto nelle ricerche dei due storici e quello che invece emerge dalla ricerche d’archivio, in particolare nel Museo d’Auschwitz, con cui Resnais si rende conto che la visita di Himmler ad Auschwitz nel 1942 è mossa non soltanto dalla logica economica dello sfruttamento della forza lavoro, ma anche dal controllo del funzionamento delle camere a gas: ciò comporta perciò un salto, un’evoluzione storica che mal si concilia con l’idea di un modello atemporale di campo. Resnais gira delle riprese nei campi oggi abbandonati, per sovrapporre a questa funzione memoriale-storiografica anche una politica: connettere quell’apparente calma, che nasconde nel profondo del terreno il dolore dei sommersi, con lo sguardo indifferente del presente di fronte a rinnovati crimini contro l’umanità. Il testo di Jean Cayrol, anch’egli deportato, carica le immagini inoltre di un valore simbolico, quello della lotta tra oppressore e resistente politico, declinato in una chiave però più incline alla “condensazione” della prosa poetica che all’analiticità di una descrizione storiografica[7]. In questo conflitto, in cui si sovrappongono compiti memoriali, storiografici, pedagogici, politici, simbolici, come già nei documentari degli Alleati, è però l’immagine-icona del musulmano, del messo al bando sia dai carnefici che dalle altre vittime, quella che inquieta più di tutte la perlustrazione di Resnais[8].

Testimoniare (senza alcun’immagine d’archivio)

All’inizio degli anni Settanta, Alouf Hareven, direttore di dipartimento al Ministero degli Esteri israeliano, dopo le prime proiezioni di Pourquoi Israël, chiede al suo regista, Claude Lanzmann, di girare un film sulla Shoah, come ancora non ce n’erano. Un film che abbracciasse l’evento nella sua totalità e magnitudine, raccontato dal punto di vista degli ebrei[9]. Lanzmann inizia leggendo, in un minuscolo ufficio concessogli dal museo di Yad Vashem, La soluzione finale di Reitlinger e la prima edizione americana della Distruzione degli ebrei d’Europa di Hilberg[10], poi inizia ad ascoltare i testimoni, vede i documentari di Resnais e di Rossif, legge Primo Levi, Antelme, Rousset e centinaia di altre monografie di testimoni, studia gli atti del processo di Treblinka, e poi il libro-intervista In quelle tenebre di Gitta Sereny, rimanendone infastidito per l’approccio meramente psicologico sul male compiuto da Franz Stangl, comandante del campo di Treblinka. Le scelte compositive di Shoah, che sarà terminato molti anni dopo, nel 1985, e durerà più di otto ore, nascono lentamente. Richiederanno a Lanzmann un lavoro da investigatore, per rintracciare e convincere a parlare i sopravvissuti, gli spettatori e, con diversi sotterfugi ai limiti della legalità, i carnefici, nonché mesi e mesi alla moviola per trovare il ritmo delle testimonianze raccolte. Già nei primi mesi, Lanzmann però intuisce quelli che saranno i cardini di Shoah (1985) [https://www.youtube.com/watch?v=Pl-shjF4QOk]: il cuore della violenza nazista rivolto al popolo ebraico è rappresentato dallo sterminio nelle camere a gas, che va radicalmente distinto dalla violenza che si perpetra nei campi di concentramento; non esiste testimonianza o immagine d’archivio dall’interno, dal budello della camera a gas dal punto di vista della vittima. Per questo, Lanzamnn si nega qualsiasi immagine d’archivio. Lanzmann quindi si convince che non tratterà storie individuali, anche se le esperienze di qualche sopravvissuto (Simon Srebnik, Michael Podchlebnik) potrà spiccare su altre. In Shoah i vivi devono farsi portavoce dei morti. Inoltre, nessun Io, secondo le parole di Lanzmann, tanto fantastico, tanto allettante, tanto deviante rispetto alla regola che questo o quel destino personale poté rappresentare; ma il destino di tutto un popolo.

Shoah (1985)

Shoah (1985)

Non vi sono immagini-icona, non è il musulmano dei primi documentari a poter raccontare lo sterminio che ha ridotto a cenere. Vi sono semmai i volti, le voci, i silenzi o i sorrisi di difesa, il ripetere-rielaborare le azioni compiute nei campi, come il barbiere Abraham Bomba che tagliava i capelli ai suoi compagni di prigionia, prima che questi entrassero nelle camere a gas. Vi è la vibrazione e il riverbero della voce di Filip Müller, membro sopravvissuto dei Sonderkommando. E se il musulmano è il punto cieco della vita nei campi di concentramento, in quanto messo al bando anche dagli altri prigionieri, i membri dei Sonderkommando rappresentano per i campi di sterminio un arresto simile, in quanto spesso “maledetti” nella memoria dagli altri sopravvissuti.

Lanzmann non cerca una redenzione né un senso, non intende indagare quale ragione (politica, ideologica, economica, religiosa) sottostesse alle violenze naziste. Mette i fatti in fila, accumula fenomenologicamente un evento dopo l’altro, come Levi ricorda che Hier ist kein Warum; quindi, come un allievo di Sartre che ne abbia portato all’estremo i fondamenti ontologici, segna la posizione individuale, singolare, irriducibile a quella di ogni altro individuo. Questo è il contraccolpo alla morte anonima e di massa e alla volontà di cancellazione dalla memoria dell’umanità dell’esistenza di un popolo, come se niente fosse accaduto. Ricordare la singola posizione rispetto a quel che è stato, segnando ogni volta i confini e i modi in cui si è esercitato il proprio essere un carnefice, uno spettatore, un perseguitato[11].

Il cinema testimoniale di Lanzmann si contrappone frontalmente a quelle scelte di carattere divulgativo, che siano ricostruzioni finzionali o documentari, che la cultura americana (ma non solo) ha invece spesso preferito. Il caso più celebre è quello del serial tv in 4 puntate di 120 minuti Holocaust, diretta nel 1978 da Marvin Chomsky, che descrive gli anni del nazismo attraverso la storia di due famiglie tedesche, una ebrea e una il cui padre di famiglia diventerà un membro delle SS[12]. Nonostante gli evidenti limiti estetici, di un serial che usa in modo anche poco originale classici modelli drammaturgici del cinema americano, Holocaust è stata l’opera che più di tutte ha costretto il popolo tedesco a confrontarsi con il proprio passato[13]. Anche se il frutto più complesso e discusso di tale confronto sarà poi un grande epos, Heimat (Reitz, 1984), la cui forma espressiva è l’elaborazione delle memorie private di una piccola cittadina immaginaria della regione dell’Hunsrück nel corso del Novecento. Heimat dedicherà pochi riferimenti indiretti alle deportazioni degli ebrei, operando così una ricostruzione del lavoro di rimozione che molti tedeschi compivano nel corso di quegli anni; ricostruzione che, immaginando tale silenzio sulla sorte degli ebrei, finisce per diventare l’ennesima forma, per quanto sottile, di assoluzione collettiva.

Testimoniare (con tutte le immagini del cinema)

Non soltanto il cinema, ma la stessa storiografia, è impegnata dai tempi di Shoah a dover ripensare alle proprie operazioni compositive, che muovono dalla scelta del materiale d’archivio ai moduli narrativi scelti fino ai criteri di spiegazione e di connessione causale proposti. Ripensare e motivare, dando la possibilità allo spettatore di capire i processi di negoziazione messi in gioco. Shoah è un monumento alla memoria dello sterminio, che perlopiù è stato aggirato, riducendo lo smisurato a misura, riportando l’enormità dello sterminio alle formule drammaturgiche che seguono la storia di un individuo o di una famiglia, secondo i canoni tradizionali del dramma o della commedia. Shoah è un’opera-mondo, che non si limita ad accumulare testimonianze, come molti musei e fondazioni stanno facendo, con uno sforzo encomiabile, che però si nega la possibilità che queste registrazioni, fatte secondo dei moduli d’intervista-standard, possano poi comporsi in opera, se non in qualche forma divulgativa e priva di rielaborazione estetica.

Histoires du cinéma (1988-1998)

Histoires du cinéma (1988-1998)

Vi è stata però un’altra opera-mondo, che ha corrisposto al monumento di Lanzmann, e sono le Histoire(s) du cinéma (1988-98) di Godard, immane opera di ricapitolazione, di found footage, costruita con tutte le immagini dell’archivio dell’immaginario cinematografico. È l’archivio di uno dei grandi intellettuali e uomini di cinema del dopoguerra, formatosi come critico alla scuola dei Cahiers du cinéma, di cui riprende con coerenza quasi ossessiva tesi espresse più di 30 anni prima. Con un’aggiunta però decisiva: il cinema non ha corrisposto al suo compito, non ha saputo testimoniare la distruzione mentre questa avveniva nei campi. Non ha saputo darci immagini dei campi, mentre la persecuzione aveva luogo. Prima, con Chaplin e Renoir (La regola del gioco, 1939) e Lang (I Nibelunghi, 1924) aveva prefigurato la distruzione della civiltà. Dopo, soprattutto durante gli anni del neorealismo, ha provato a recuperare uno sguardo capace di essere testimone. Ma tutto è arrivato in ritardo, e comunque evitando quasi sempre di immaginare la distruzione dell’umano che avveniva nei campi. C’è stata la forza testimoniale del cinema neorealista, di Rossellini su tutti, il cui punto estremo è stata la passeggiata solitaria e il suicidio del piccolo Edmund in Germania anno zero, c’è stata l’indagine critica e morale della Nouvelle vague, ma alla fine Godard constata che il compito di salvare l’onore del reale è stato preso in carico da quei cinegiornali degli Alleati, e da quei pochi film in grado di corrispondere esteticamente al compito di rappresentare lo sterminio (La Passeggera su tutti). Ogni immagine del cinema è perciò convocata da Godard di fronte alla propria colpa incancellabile, quella di non aver saputo mostrare tale processo di distruzione mentre esso avveniva. Quest’enorme lavoro di montaggio, articolato in otto episodi per la durata complessiva di più di 4 ore, vede nel campo nazista il fuoricampo, continuamente interpellato, dell’immaginario del Novecento.

Le posizioni di Godard, poi riprese anche in successive opere (Éloge de l’amour, 2001, su tutte), hanno provocato nel circuito intellettuale francese ampio dibattito[14], rinforzato dallo scetticismo causato dal fatto che fossero sostenute da un cineasta, segnalatosi negli anni Settanta per il proprio anti-sionismo. Per Lanzmann, l’archivio di immagini da utilizzare deve partire dal presupposto che nessuna vittima ha potuto produrle, e quindi ognuna di quelle immagini del passato porta con sé il peso di essere incapaci di raffigurare lo sterminio dal punto di vista del sommerso. Godard, al contrario, crede alla forza redentrice del montaggio, che rende leggibile tramite l’accostamento immagini tra di loro lontane. Un montaggio su tutti, è rimasto esemplare per quest’opera: l’immagine di un musulmano, girate da Stevens a Dachau e quella, tratta da Un posto al sole, sempre di Stevens, in cui in riva a un lago possiamo osservare la felicità piena, del tutto terrena, di Liz Taylor con Montgomery Clift. Godard si chiedeva da dove proveniva quella felicità di sguardo, e si rende conto che sono gli stessi occhi che hanno visto l’orrore a Dachau. L’assoluta fragilità di quella gioia, di quello splendore dell’essere, si rivela se montata insieme all’icona della miseria umana. Rovesciata di 90 gradi, un particolare della Cappella degli Scrovegni va a sovrapporsi all’inquadratura di Un posto al sole. Il braccio di Gesù che si allontana dalla Maddalena diviene così il braccio, che spunta dal fondo dell’inquadratura, di un sommerso.

Dopo i testimoni (vedere Andris)

Quello che ho tracciato è un quadro sommario della cinematografia del mondo occidentale, che si concentra tra l’altro soltanto su alcuni dei momenti più rilevanti rispetto al problema teorico di come vedere la Shoah. Nel cinema italiano, se sicuramente il film di Benigni rimane il film più conosciuto dedicato all’argomento, è nel campo documentario che si segnalano i tentativi più interessanti. Il film di Ferrerio per esempio, La strada di Levi (2006), che ripercorre a distanza di decenni il cammino di centinaia di kilometri affrontato da Primo Levi all’uscita da Auschwitz e descritto nella Tregua. Ma soprattutto Memoria (1997) di Ruggero Gabbai, con le interviste di Marcello Pezzetti e Liliana Picciotto agli italiani ebrei sopravvissuti ad Auschwitz[15].

Il confronto Godard-Lanzmann segnava l’età del testimone, quei decenni alla fine del Novecento in cui da una parte il tramonto delle ideologie e di ogni prospettiva teleologica sul progresso storico, dall’altra le ondate revisioniste, avevano messo al centro il tema della memoria della vittima. Raccontare, secondo un vecchio progetto di Benjamin, la storia dal punto di vista dei vinti. Il contraccolpo al progetto di cancellazione di un popolo e della sua memoria, al progetto di un evento senza testimoni, sta nella parola e nel volto del testimone che appunto resiste, che combatte ogni forma di stereotipo che riduce la Shoah a qualche formula ontologica, che insiste sulla dimensione ogni volta singolare dell’essere.

Ma adesso, nell’epoca dopo i testimoni? La soluzione più semplice è quella di fare della Shoah una sorta di racconto fondatore della nostra epoca[16], con il rischio però di una sua sacralizzazione, che è proprio ciò che autori come Lanzmann hanno cercato di evitare. Una seconda strada è quella di rinunciare alla Shoah come oggetto di racconto, per prendere però a modello il rapporto testimoniale che il cinema, nel confronto con la memoria dello sterminio, ha fatto progressivamente emergere con forza, volgendolo però verso i nuovi processi di esclusione. Vi è quindi una terza strada, quella tracciata da Godard: pensare attraverso il montaggio il cinema come testimone delle testimonianze, intendendo con esse qualsiasi traccia dell’archivio audiovisivo. Un lavoro di rielaborazione della memoria collettiva. Godard lo ha svolto perlopiù nei confronti di quelle immagini “pubbliche”, entrate nella sua memoria privata di spettatore. Ma c’è un altro campo, altrettanto interessante, che ha già avuto alcune realizzazioni importanti: su tutte, Ungheria privata (1988-2002). È il campo delle opere di found footage costruite a partire da immagini private da rendere pubbliche, a partire dagli home movies, ancora nascosti in qualche cantina o soffitta, ancora segreti. Forgács, per esempio, in Il Vortice (Caduta libera, 1996) [http://www.forgacspeter.hu/english/films/Free+Fall/18], uno dei 14 film che compongono Ungheria privata, ha montato le immagini dei filmini di famiglia che ricostruiscono la vita di György Petö, ebreo di estrazione alto-borghese, con eccellenti frequentazioni, dalla fine degli anni Trenta fino alla sua deportazione durante il conflitto[17]. È un’altra forma di presente della testimonianza visiva, dopo quella del presente del sopravvissuto dopo lo sterminio (Shoah), e quella del presente della messa al bando mentre i campi venivano aperti (i documentari degli Alleati). È il presente di colui che è stato messo al bando prima del proprio totale annullamento. Ma il lavoro di Forgács non è soltanto quello dell’archeologo. Attraverso la rielaborazione cromatica e ritmica delle inquadrature, attraverso il commento musicale o le voci over che riportano le parole della storia “ufficiale” contemporanea all’esistenza di Petö, emerge sia il lavoro di proiezione/rimozione che questi stava compiendo nei confronti di quello che gli accadeva intorno, sia soprattutto è reso possibile per lo spettatore acquisire la consapevolezza di quanto a sua volta anch’egli investa ogni immagine della proiezione dei propri desideri e delle proprie paure. La microstoria privata non è soltanto immessa all’interno di una storia pubblica, ma è mostrata nelle sue resistenze, nel tentativo di nascondimento, anche a sé stesso, che si produce attraverso la ritualizzazione dell’esistenza (i filmini privati che riprendono scene da matrimoni e feste, con un codice di gesti e atteggiamenti spesso ripetuto). Come la memoria pubblica del grande cinema raccontato da Godard, anche la memoria privata, privatissima, (si) nasconde qualcosa.

Il vortice (proiezione a Los Angeles 2002)

Il vortice (proiezione a Los Angeles 2002)

Come con Godard, ricordiamo soltanto un’immagine-icona, alcune brevi riprese di pochi secondi del figlio neonato di Petö, Andris, prima della sua deportazione ad Auschwitz. Queste immagini sono sovrapposte al negativo di una corsa di un treno in una foresta, con i colori sempre più spettrali, mentre una voce fuoricampo legga alcuni versi (di János Pilinsky): «Non è terra la terra,/ non è cifra la cifra,/ e Dio l’Iddio,/ e fiore il fiore,/ e tumore il tumore,/ e inverno l’inverno,/ e campo di concentramento il conchiuso spazio dalla forma incerta». Torna la domanda che ha attraversato lo sguardo più consapevole sulla Shoah: qual è lo spazio e il limite del campo? Ma questi pochi secondi, ci richiamano innanzitutto a un compito impossibile: seppellire con il nostro sguardo chi è rimasto insepolto. Seppellire Andris.


Note:

[1] Cfr. C.S. Chaplin, La mia autobiografia, Mondadori, Milano 1964, p. 272.

[2] Cfr. A. Bazin, Pasticcio e posticcio o il nulla per dei baffetti, in Id., Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1973, pp. 49-53.

[3] La commedia di Lubitsch narra delle attività di contro-spionaggio di alcuni attori di una compagnia teatrale, i quali sfruttano le capacità recitative e l’arte del travestimento per poter ingannare i nazisti e salvarsi da essi.

[4] A partire dagli anni Novanta, rivelazioni sulla vita e sulle pratiche cliniche nella sua Scuola Ortogenetica di Chicago hanno reso molto controversa la figura di Bettelheim; la sua lettura in chiave psicologica della sindrome di autismo e i parallelismi con patologie psicologiche degli internati nei campi sono stati ampiamente ridimensionati.

[5] Il soggetto nasce dal radiodramma Pasażerka z kabiny 45 di Zofia Posmysz-Piasecka, anche tra i sceneggiatori del film.

[6] I nazisti hanno realizzato un film sui campi: La città che Hitler regalò agli ebrei (Gerron, 1944-45), sul campo “modello” di Theresienstadt, nel quale la Croce Rossa Internazionale svolgeva le sue indagini sulle condizioni dei detenuti dei campi di prigionia. Il campo era organizzato come una “vetrina”, utile a propagandare all’estero un’immagine falsificata della vita nei campi.

[7] Rimane invece in ombra la specificità della persecuzione del popolo ebraico e la logica di sterminio della camera a gas.

[8] Sempre in quegli anni, esce Les temps du ghetto (1961) di Frédéric Rossif, sul ghetto di Varsavia; è un film che sconta l’uso spesso confuso del materiale d’archivio, tra cui quello girato come propaganda dalla Wehrmacht.

[9] Cfr. C. Lanzmann, La lepre della Patagonia, Rizzoli, Milano 2010, p. 474.

[10] Cfr. G. Reitlinger, La soluzione finale: il tentativo di sterminio degli Ebrei d’Europa 1939-1945, Il Saggiatore, Milano 1962; R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, Einaudi, Torno 1999. Hilberg parteciperà come testimone-storico a Shoah.

[11] Lanzmann, con il materiale girato durante quegli anni, ha poi composto: Un vivo che passa (1997), Sobibor, 14 ottobre 1943, ore 16 (2001), L’ultimo degli ingiusti (2013).

[12] Prima di Holocaust, la tv americana (e israeliana) si era confrontata con la persecuzione degli ebrei soprattutto attraverso la programmazione dedicata al processo-Eichmann. L’uomo nel box di vetro sarà una nuova immagine-icona dello sterminio, che probabilmente ha anche rafforzato la forza persuasiva delle tesi espresse da Arendt in La banalità del male, poi riprese dal documentario Lo Specialista (Syvan, 1999), che riorganizza il materiale d’archivio di quel processo.

[13] Alcune note diaristiche di Günther Anders (Dopo Holocaust, Bollati Boringhieri, Torino 2014) spiegano l’efficacia di questo serial, che proprio riducendo lo smisurato e l’inimmaginabile a qualcosa di comprensibile e convenzionale, ha però permesso il primo vero confronto a livello collettivo del popolo tedesco con lo sterminio.

[14] Ne dà ampio conto G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Raffaelo Cortina, Milano 2005.

[15] Il cinema di finzione è rimasto all’interno di soluzioni perlopiù calligrafiche, come ne Il giardino dei Finzi Contini (De Sica, 1970) o in Jona che visse nella balena (Faenza, 1992). Poco convincente anche l’adattamento de La tregua fatto da Rosi nel 1997, che nella descrizione del mondo attorno a Levi indugia a toni da commedia all’italiana

[16] L’esempio più importante, anche per lo sforzo di una riflessione sulla capacità del cinema di porsi come storia contro-fattuale, così da bruciare il nazismo, è Bastardi senza gloria (Tarantino, 2009), che lo sviluppa in una chiave distinta da quella testimoniale.

[17] Tra le altre opere di Forgács dedicate al tema della Shoah, si segnala The Maelstrom. A Family Chronicle (1997). Tra le opere che prendono le mossa dalla pratica del film di famiglia, si ricorda tra gli altri anche La Maison de Pologne (Morder, 1983).